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Gianluca Costantini
Graphic Synthesizer

parole e immagini di e per Elio

CD Il piano Grande, copertina di Davide Reviati e Gianluca Costantini

Elio vecchio lupo di mare, vecchio lupo da amare. L’ho conosciuto da ragazzina, ho seguito le sue malinconie come strade inevitabili “Eh, io lo so, lo so come vanno a finire queste cose”. Alto, Bello, dinoccolato, con gli occhi e i capelli neri, la carnagione chiara, le mani lunghissime, mi si parava davanti come un semidio, o un semifreddo. Elio a scuola ci veniva solo per stare con noi, i suoi fans. Era come una chioccia coi pulcini.
“Sembri una sballata” fu la prima cosa che mi disse. Lo rincorsi per il corridoio, e il corridoio non finiva mai. Avevo il cuore in gola.
“Ehi, cosa significa, sballata?” lui mi guardò con sufficienza, guardò il ragazzo che gli stava a fianco (doveva essere il suo vice), e disse “Dai, Zò, che domande fai, sballata p un un po’ così, come te…”. L’avevo notato alle assemblee, perché era il più alto di tutti, ed era quello ce, senza alzare la voce, zittiva tutti con la sua eloquenza. Aveva sempre Lotta Continua in tasca, lo la testata in bella vista; e portava numerosi braccialetti di perline, più degli altri. Anche la sua giacca era signorile, era verde come un eskimo ma aveva un colletto di finta pelliccia. Insomma i gradi. Quando mi vedeva, mi veniva incontro festoso, e mi circondava le spalle con un braccio. Il mio primo impatto con la politica fu un manifesto scritto da vari collettivi a sostegno della Comune di Pian Baruccioli (conto la repressione poliziesca). Elio mi parlava dei fumetti di Andrea Pazienza, che allora era giovanissimo studente del DAMS ma già straordinario disegnatore e faceva “Pentothal”; mi parlava delle canzoni di Claudio Lolli, della musica degli Area, di Marquez, di Heinrich Boll, degli indiani d’America, di “Vivere bene” (manuale di cucina alternativa) e di tutto ciò che costituiva i nostri sogni comuni. Ma anche dei nostri incubi comuni: sbirri, posti di blocco, perquisizioni, retate, carcere, legge reale.


D’estate lo aspettavo davanti al cancello della pensione dove lavorava come cuoco. A volte ci andavo anche pitturata da indiana. Il fornitore gli urlava: “Elio, ci sono gli indiani qua fuori!”. Usciva e mi diceva: “Ma va là, sei sempre la solita!”. Mi dava la posta dei compagni, che non potevo farmi recapitare a casa. Ci arrivavano tante lettere, ed anche diverse consonanti. Qualche volta si divertiva a buttare le monetine ai villeggianti, qualcuno s’incazzava.
A lui piaceva provocare ed anche rispondere per le rime.
Un giorno in piazza incontrammo un compagno che vendeva armadietti sanitari, e quello vedendomi con la “A” cerchiata sui jeans, mi disse: “Ti devi legge l’Umanità Nova, ricordati di questo nome: Umanità nova”. Fu un invito o una minaccia?
Probabilmente mi capiva più degli altri, perché finita la scuola continuammo a frequentarci, come due cattive compagnie, per molti mesi e molti chilometri macinati coi pugni in tasca. Ci sentivamo due disadattati, quel tanto o quel poco per comprenderci subito. Il vero Elio ho cominciato a vederlo in quel periodo. Non c’erano più proseliti da fare, si camminava per ore sulla spiaggia deserta o nei vialetti che costeggiavano il lungomare. Si parlava di qualsiasi cosa, specialmente di cinema, di arte e di libri. Siccome era un po’ macabro, amava il genere horror e mi faceva una testa così con el piaghe d’Egitto. Aveva preso in affitto una casetta vicino alla ferrovia, dove allevava scorpioni e dipingeva con le formiche; veniva a trovarmi tutti i pomeriggi e mi portava a spasso (a fare pipì). Ero apprendista in un laboratorio di ceramica, poi mi licenziai perché la padrona era troppo stronza. Mi deliziavo dell’unica libertà ceh i disoccupati hanno: il tempo. Leggevo, scrivevo, dipingevo fin nel cuore della notte. I miei genitori erano disgustati da me. Allora il dado Elio mi faceva da fratello.

Andammo a vedere insieme “L’onore perduto di Katharina Blum” (da1 romanzo di Boll) ed altri film molto belli; anche “Ratataplan” di Maurizio Nichetti (una vera rivelazione). Insomma, nonostante le solite chiacchiere della e dalla parrucchiera, la nostra amicizia era molto casta (come direbbero in India) e puramente intellettuale. Tornò a Ravenna e iniziò a frequentare gli anarchici, che allora gestivano una libreria (sorta dove un tempo c’era un ‘osteria anarchica). In tutti questi anni, questo filo, sebbene logorato o indebolito dalle vicende e dalla lontananza, non si è mai spezzato. Devo dire in gran parte grazie a lui, che mi ha scritto quintali di racconti e riversato la sua voce e le sue musiche su chilometri di nastri, lucidi deliri di un folle cosciente che ha tolto con le unghie la maschera d’ogni convenzione, richieste d’amore provocatorie disperate condite da sarcasmi e sorrisi velenosi. Sogni, visioni, sguardi di ragazzi, spruzzi di vernice alcolica, un’altalena di creatività e distruzione. Immagino la faccia del postino mentre legge una delle sue sboccatissime cartoline. Lo immagino mentre, vestito dark, viene scambiato per prete da un’anziana signora che gli si confessa in tram. Oppure mentre incolla tante facce di Diamanda Galas sulla porta della sede dei Testimoni di Geova, sue vittime predilette. Testimoni di Geova che fuggono inseguite da Elio che gli dice:”Sono il figlio di Satana”. Elio che sradica un cartello della Lega per buttarlo nel bidone dell’immondizia. Elio che cancella le scritte razziste dai muri di Ravenna. Elio che caccia fuori i fascisti dal suo pub, dalla sua vita. Elio mutevole, strano e difficile, scorpione, animale della notte e dell’inferno. Cuoco futurista, amante esagerato, con abiti chic da shock e pettinature da biennale, oppure triste e stanco davanti alla tv. La sua nuova casa, col frigo anni ’50. Come Siddharta sempre attraverso, una volta bianchissimo ora abbronzato; insofferente a ciò che è stato, a ciò che è Stato.

di Patrizia “pralina” Diamante

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