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Gianluca Costantini
Decoration of Existence

Vaticini di un oracolo di Giulio Guberti

Testo in catalogo per la mostra “Voi siete e in un caso o nell’altro non scappate”
Bologna, Studio Mascarella, 2002

Che le tavole di Gianluca Costantini possano essere lette in molteplici modi, che le interpretazioni siano plurime, che il senso (se questa parola ha ancora un senso) possa mutare in rapporto ai molti punti di vista o alle “filosofie” alle quali ci si affida per produrre ancora una volta senso, lo darei per scontato e pertanto su ciò non vorrei soffermarmi più di tanto. E non sarebbe neppure difficile: due immagini per quanto dissimili, per quanto possano sembrare lontane per genere e specie (tanto per rifarsi alla nomenclatura di Linneo), se si accostano, si finisce per trovare tra loro un raccordo, una connessione o, come avrebbe suggerito Freud, un’associazione, anzi, una libera associazione di idee. E passi pure per tre o quattro icone (la stessa cosa vale per le parole): un modo di dare loro un significato si trova. Sarà casuale, aporetico, ma si trova. Si veda per esempio il rapporto tra cose, animali e umani nei sogni: bene o male un racconto si riesce a produrre o, almeno, una situazione: si troverà sempre qualcuno che dirà: vuol dire questo, significa quest’altro. Ma quando le icone diventano molte allora il raccordo, la connessione o l’associazione si perdono. In questo caso si parla di confusione (badando magari a precisare, come faceva il vecchio Lukacs, che la confusione non è il caos) o di rumore come dicono i semiologi. Rumore che dal punto di vista dell’arte non è né un pregio né un difetto; è soltanto un ostacolo alla “comunicazione” che avrà una sua ragion d’essere (se ce l’ha) sul piano mediatico, ma non su quello artistico

Le icone di Gianluca sono nitide, eseguite con estrema precisione (un omaggio alla lentezza, alla pazienza certosina), disegnate in bianco e nero con la china, sono come usa dire “riconoscibili”: un pesce è un pesce e così per la testa di un uccello, un motivo decorativo classico o liberty rivisitati, segni zodiacali, mandala sacri di meditazione e di estasi, cornici variamente decorate, nudi di donne, note musicali, angeli e diavoli, un Cristo tra le fiamme, croci e totem o maschere di idoli, eccetera. Ma l’associazione è quanto meno criptica. (da kryptós, nascosto, sepolto).

Si tratta di una mostra, dal titolo, “Voi siete, e in un caso o nell’altro, non scappate”, titolo oracolistico, come si vede. Composta da pannelli, diversi dei quali disegnati manualmente e altri rielaborati al computer. In questi ultimi dal momento che, elettronicamente, il fondo diventa nero, le figure dei personaggi vengono come velate, tendono a scomparire, diventano fantasmatiche. Qui, la decorazione (ovunque esuberante) prende il sopravvento, tende a padroneggiare il campo, e nello stesso tempo si sovrappone e inizia a frantumarsi: insomma non è la “bella” decorazione dei tappeti persiani i quali, è stato detto, sono la metafora del Volto di Dio. Direi piuttosto, citando William Blake, autore amato dal nostro artista: “… vidi l’Angelo che ora è diventato Diavolo, aprire le braccia ed abbracciare la fiamma di fuoco: e fu consumato, e risorse come Elia”. Quindi una decorazione non consolatoria ma piuttosto inquietante…

Credo si possa dire (con relativa tranquillità) che l’artista ha scelto come trait d’union di questi disegni l’opzione stilistica: c’è una sua cifra in queste tavole che in certo qual modo le unifica. Ed è cosa piuttosto rara tra i giovani artisti (senza voler fare del giovanilismo un’etichetta) che decostruisce ancor più la lettura. Infatti una volta notata per così dire l’evidenza e la riconoscibilità, si avverte ancor meno che a significanti coerenti e riconoscibili non corrispondano significati altrettanto coesi; anzi si viene indotti ad accanirsi a cercarli: una trappola, come direbbe Amleto, per far precipitare la coscienza del re? Si potrebbe anche aggiungere che l’imprinting di queste tavole è quello dei fumetti di Gianluca, cioè il loro carattere distintivo della “nascita”: ma poi, crescendo, si ha la sensazione di un distacco ombelicale. Addirittura nelle tavole rielaborate al computer sembra che la sovrapposizione di una decorazione frammentata, voglia se non cancellare, quanto meno attenuare l’influsso genetico: si potrebbe dare spazio alla massima, cultura vs. natura. Ad ogni modo, che sia nella cultura-natura dell’artista o nello “specifico” del computer, le ultime tavole anche in senso cronologico, sembrano accodarsi meno a quel prefigurato destino genetico.

I titoli delle tavole sono lunghi, sembrano abbozzare un racconto che nei disegni manca. Un titolo così recita (rispettando gli “a capo”, anche se non credo vogliano avere, nella volontà dell’autore, la scansione dei versi poetici): “Non c’è movimento, ma feci una lunga svolta a destra, mi venne da ridere, ero felice di vederti, / poco dopo quel piacere diventò indifferente, abitudine, si tramutò in cicaleccio infantile, erano passati tre minuti. / Soprattutto era fastidio, avevo un infinito diritto di piaceri sublimi, sottintesi, inclinati. / mi capita a volte di fare degli sforzi, ma c’è di più…/ feci una passeggiata, ecco tutto. ” Dal punto di vista logico i titoli sembrano non avere rapporto alcuno con ciò che è disegnato nei pannelli. E probabilmente la cosa non solo è voluta, ma è un segnale, un’indicazione apparentemente stramba, per influenzare (ma non più di tanto e senza coercizione) una possibile lettura dell’artista stesso che, però, è una delle tante possibili.

Dire che in queste tavole si nota una assenza temporale, potrebbe trarre in inganno: disegni senza tempo come in una “metafisica” rivisitata? Forse le cose stanno diversamente: proverei a riportare questi di-segni con i piedi per terra. In tutto il XIX e in gran parte del XX secolo abbiamo assistito a uno sviluppo “storico” che ha saturato completamente lo “spazio” terrestre: tanto che non ci sono più “terrae incognitae”. Non so se questa sia una specie tutta particolare di fine della storia o, come qualcuno ha detto, la storia che diventa sempre più geografia. Anche la cosiddetta mondializzazione o globalizzazione concorre allo scopo. Ora, non vorrei prendere la cosa dal punto di vista del cosiddetto pensiero unico perché ciò facendo si rischia di buttarla in politica. Dio me ne scampi e liberi: almeno in questa occasione. Rimane però la constatazione che questo spazio interamente conquistato e scoperto e colonizzato si è come ripiegato su se stesso, quasi implodendo e, con ciò, ha quasi eliminato il tempo, cioè la sua quarta dimensione che era stata scoperta dalla fisica a cavallo dei due secoli menzionati. Quando si dice che si sta perdendo la “memoria storica” si ricorre a una banalizzazione che però è meno evidente nelle sue cause più profonde. Credo si possa dir meglio con Jean-Luc Nancy: “In un certo senso, è l’intero spazio dell’umanità e della natura ad essere imploso. Conquistato integralmente in ogni sua dimensione (le quattro dimensioni dello spazio-tempo euclideo, quelli degli spazi non euclidei e quelle dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo per taglia, massa, forza, velocità…), lo spazio ha cessato di essere un volume estensibile nel quale slanciarsi o del quale, meglio ancora, l’esploratore una volta accresceva egli stesso l’espansione”.

Nell’ambito dello spazio senza “tempo storico” (e non solo, genericamente, senza tempo) mi sembra, anche segnicamente (il campo tende a brulicare ovunque), questi disegni di Gianluca e in particolare gli ultimi elaborati al computer, si riempiono di una decorazione “cattiva”, invadente, nera, senza colore, senza Dio. Qui la figura è già diventata fantasma, l’evento è già avvenuto, l’ombra dello spettro sta calcando la terra. Si è già compiuto l’occultamento…

Aprire uno spazio per una vista, come suggerisce ancora Nancy, è un movimento e il movimento è tale poiché avviene nel tempo: dunque questa nuova spaziatura comporta un’apertura verso una storia, se non una nuova storia, una diversa storia? Dobbiamo fare l’esperienza ancora di una “storia”? Di una storia in uno spazio conquistato totalmente? Di una storia della mondializzazione? Personalmente credo di tirare i remi in barca: mi manca la forza e forse anche il gusto di sapere come va a finire. Ma Gianluca è giovane, lo sento dai suoi titoli, dai titoli dati a queste tavole che sembrano non avere connessione con esse. Essi in realtà sono racconti o, quanto meno, abbozzi di racconti e, posso anche sbagliare, mi sembrano anche racconti pulsanti della sua esistenza, del suo essere-nel-mondo, del suo esserci. E il racconto non ritrova soltanto il tempo, ma anche una storia. O, per estremizzare Eric Hobsbawn, la storia altro non è che racconto. Mi chiedevo infatti come mai Gianluca amasse o, almeno, ammirasse Blake. “Vi dirò quello che Giuseppe d’Arimatea / Alla mia Fata disse: non vi pare che fosse molto buffo? / ‘Plinio e Traiano! Voi? Siete qui? / A Giuseppe d’Arimatea, prestate ascolto. / Con pazienza ascoltatelo, e quando avrà Giuseppe terminato / Ne riderà un pagliaccio divertendo una fata'”. C’è molto più Blake nei titoli abbozzi-racconti che nei disegni. Nella cifra dei disegni c’è molto più la bidimensionalità del liberty o, volendo, dei mosaici bizantini delle basiliche ravennati. O di certe stilizzazioni che, magari lontanamente, derivano da certe stampe giapponesi: il sentore di oriente che anche Montale aveva avvertito in Ravenna e dintorni.

A questo punto potrebbe non essere assurdo parlare di “schizo” (Deleuze), di divaricazione o di frantumazione. Ma è l’oscurità a prevalere: il nostro è diventato un mondo oscuro e le parole come le immagini sono altrettanto oscure (cercherò di arrivarci più consapevolmente alla fine di questo scritto). Il titolo di una tavola (lo si può leggere per intero nella didascalia) finisce con due proposizioni o, in questo caso, versi: ” Sarà lì finché qualcuno non busserà alla porta. / Sarà lì finché qualcuno non chiuderà quella porta”. Ma chi? “l’intelligenza che aggira sempre” o “il dolore e la solitudine”o qualcos’altro di cui si dirà? Scriveva Ungaretti che “per sette lustri” lavorò alla traduzione di Blake, proprio a proposito di questi: “Il vero poeta anela a chiarezza: è smanioso di svelare ogni segreto: il proprio, il segreto della sua presenza terrena… cercando d’impossessarsi, folle, del segreto dei segreti. Egli ha coscienza che la parola è difficile e se ne dispera, ma, la rende fatalmente più oscura, più intrappolata nei significati”.

Ciò che trovo sempre strano, dopo tanti anni che scrivo di e per artisti, strano, piacevole e stancante, è questa sovrapposizione all’opera o alle opere, che inizia quasi annusandole e poi strusciandole e infine guardandole con la sensazione di essere guardato: insomma una specie di erotismo di testa e passionale che alla lunga lascia vuoti, proprio come alla fine di un atto sessuale. E ciò stanca ed è a partire da qui, da questa stanchezza che suscita il piacere al suo esaurirsi, che Freud ha scoperto che al di là del principio del piacere c’è la pulsione di morte. “Sarà lì finché qualcuno non chiuderà quella porta”. E già: quella porta!

Molto acuta ho avuto questa sensazione inquietante, guardando e facendomi guardare da questi disegni di Gianluca Costantini. Forse ho scritto come se l’opera o le opere mi parlassero e mi dicessero le cose che ho cercato di dire loro e che ho cercato di scrivere per l’Altro o per gli Altri: c’è una forma di egologia che la critica d’arte (come qualunque altra critica e qualunque altra scrittura) non riesce mai a superare completamente. Ma ai tempi in cui scrivevo alla Guy Debord (tanto per fare un nome che rappresentava una critica radicale, forse la più radicale), di merce, di feticismo e di provocazione (sperando di cogliere, al fin la meraviglia), le cose sembravano prendere una piega diversa. Almeno più ludica e certamente più vibrante.

In questo momento, vorrei proprio sapere a chi appartiene l’immagine di quel fantasma che viene occultato dalla decorazione. Se sono io che guardo l’immagine nascosta di Gianluca o se è lei che mi scruta, che sbircia. Se coloro che la guarderanno in mostra avranno la medesima sensazione: di essere spiati da qualcosa che in un modo o nell’altro ha a che fare con il nostro lato oscuro, con la pulsione che subentra al piacere. A cui si possono dare diversi nomi: ognuno a suo piacimento. Al posto della merce, del feticcio e della provocazione? O di ciò che si situa “oltre”? Che sia lì, scavando nella rimozione, il segreto dei segreti di cui parlava Ungaretti? “Non scappate” dunque, tanto più che è inutile…

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