in “inguineMAH!gazine”, n.2, Roma, Coniglio Editore, 2003

Tutte le volte che ho guardato le tavole di Costantini ho avuto la percezione di un’ambientazione notturna: una sensazione non ragionata, almeno finora, ma adesso più che mai precisa. Cieli di stelle, colore nero predominante anche oltre e al di là della storia presente, la Macchina Suprema. Anche quando ambientata in interni, l’azione si svolge contestualizzata in un nero-piombo incombente e, se per caso è giorno, l’orizzonte a motivi decorativi ricorrenti si alza fino a diventare cortina, consegnandosi così a uno spazio claustrofobico, di nuovo e infinitamente notturno.
Mi sembra inutile ribadire l’utilizzo da parte di Gianluca di motivi Art Nouveau – così evidenti nella loro stilizzazione unidimensionale, nella loro ambivalenza di vuoti e pieni, in quella ridondanza curvilinea così seducente – piuttosto mi chiedo il significato più profondo di questa notte senza confine e quali le unioni con essa.
In Macchina Suprema la notte è collegata alla dimensione del sogno ma anche surrealmente alla verità – almeno per alcuni protagonisti del racconto -, al possibile, ai segni che predicono e si traducono in destino. Un trattato non basterebbe a riassumere le tradizioni letterarie, scientifico-filosofiche che stanno dietro a queste interpretazioni, ma che importa stare qui a ripeterle? E’ comunque questa dimensione intima a dominare, un’oscurità che non apre mai ai grandi spazi interrogativi o programmatici, che all’opposto stanno sempre in piena luce, sotto i riflettori del giorno. Essa piuttosto bisbiglia all’orecchio una favola e ondeggia ambiguamente fra il sonno e la veglia, piegando ogni resistenza razionale: è nell’ossessività del notturno che si rinforza il potere seduttivo del racconto, quel dipanare lento il filo fantastico degli avvenimenti.
Credo che all’inizio dei mondi non ci potesse che essere un racconto per immagini, il primo a porre ordine alle esperienze del giorno, a distinguere il sacro celato nel dettaglio. Così capisco l’amore di Costantini per Blake, uno dei più grandi affabulatori per immagini e verbo, così potente nel rendere la sua visionarietà e nel rilevare il sacro in ciò che lo circonda. Lui – uomo di fede, anche se eteronoma – cela e rende visibile allo stesso tempo mediante l’ambiguità che è propria della visione. Ambigua e notturna (perché l’eccessiva luce non è che il suo opposto, il buio).
L’altro elemento così evidente in questo come in tutti i lavori di Gianluca è la predominanza totale della decorazione. Viene da sottolineare quanto essa sia calibrata: ammiro il fatto che non scompensi mai la scena e non porti mai in secondo piano ciò che invece è prioritario, rendendo sempre chiari i nessi e l’impianto logico di azioni ed espressioni. E pure è così presente che – se presa a parte – potrei quasi definirla eccessiva. Che c’entra questa con la notte?
Mi vengono in mente l’ostilità di Loos sull’ornamento e le dissertazioni filosofiche di De Chirico sulla linea curva. Ma credo occorra ripartire dalle tavole qui a seguito per ipotizzare una chiave d’interpretazione diversa. Il mondo costituito da linee di questa storia è oltre l’essenzialità, che può esser definita, ma a fatica, per sottrazione più che per evidenza. E’ l’equivalente di un mondo di estrema bellezza dove i segni si moltiplicano con un vitalismo da fare invidia alla stessa natura. Ma quale linee sottrarre per giungere all’essenziale? E se anche riuscissimo nell’operazione, avremmo poi un risultato convincente? Mi sembra di poter affermare il contrario: ogni linea nel suo eccesso, ogni decorazione nella sua caparbia ripetitività rappresenta la foresta necessaria che ci circonda, dove tutto ha senso – o forse il suo contrario.
Il quesito rimane irrisolto: ma ciò è del tutto ininfluente alla luce della seduzione di una storia, e se “tutto ciò che è profondo ha bisogno di una maschera”, allora abbiamo bisogno ancora di vedere queste immagini e di farci catturare dal racconto.Magari di notte … come all’inizio dei mondi.