Marginali Iconografie delle culture alternative, Roma, Castelvecchi Editore, 2004

Duttilità o specializzazione
Il tema della duttilità in rapporto alla specializzazione è piuttosto, come dire, faticoso, nell’immaginario contemporaneo. Né sembra esista letteratura salvifica, a conforto. La questione è semplice, volendo: da un lato c’è una forte necessità di individuare competenze disciplinari che a loro volta si incastrano in campi di azione ben definiti dal mercato (qualunque esso sia, quell’ dell’arte compreso); dall’altro però si auspica l’incrocio, il mutamento, l’inversione di contesto nell’auspicio di rinnovare gli stantii repertori di cui ci cibiamo abitualmente. La complessità delle diramazioni possibili rende peraltro difficile fare riferimento alla tradizionale fenomenologia dell’eclettismo, e anche alla sua letteratura, perché effettivamente qui si tratta di agire su sistemi di produzione e di consumo strutturati che portano con sé codici di relazione fra i due che necessitano di una presa di posizione, e delle conseguenti mosse teoriche, destinate a incarnarsi nella prassi.
Detto in soldoni, essere product designer non significa matematicamente avere la possibilità di accesso (in questo caso, inserendosi nel rapporto cliente – utente) ai codici del graphic design, pur essendo le due discipline figlie di un’unica grande famiglia culturale. Così dal graphic all’advertising, di qui all’arte e via dicendo. Se si vogliono fare le cose decentemente, per carità, poi ognuno fa quello che gli pare. Con due ulteriori appunti: tutti coloro che, mettiamola così, si esprimono con le forme (non voglio neanche dire con le immagini) hanno un mercato, ovvero dei clienti (chi mantiene economicamente il mercato dell’arte?) e dei pubblici di utenti di riferimento, piccoli o grandi che siano. Poi, non è questione di tecnologie: la competenza tecnologica, pur se importante, è secondaria rispetto all’acquisizione di dinamiche che per forza dobbiamo chiamare progettuali. Ovvero: non è il problema di progettar tavoli o auto; mettere in mostra dipinti o video; fare web o grafica su carta; il ruolo della tecnologia, tradotto in tecnica, interviene dopo la scelta di paradigmi di riferimento. A meno che….
Un altro punto di vista
A meno che non cambiamo punto di vista. Cosa che non facciamo mai, perché le nostre chiavi di lettura sono tutte dalla parte della produzione, e dei sistemi culturali di riferimento che essa promuove, e mai dalla parte dell’utenza, ovvero delle interpretazioni pragmatiche che il destinatario dà di ciò che gli viene proposto. Il punto è molto semplice. In un sistema comunque dominato da egemonie (culturali, politiche, religiose, commerciali) siamo sicuri che la lettura data dal destinatario nel momento in cui si appropria dei messaggi (dei testi, direbbero i semiologi) che gli vengono proposti sotto forma di oggetti, funzioni religiose o direttive politiche, sia effettivamente corretta, in linea cioè con le finalità, le intenzioni e le strutture culturali dell’emittente? Attenzione, si sta parlando della decodifica aberrante, un’altra volta semiologia, un’altra volta incentrata sulla produzione. Ce la potremmo allora cavare con una battuta: quella che dice che gli italiani, quando vedono un divieto, lo infrangono apposta…
Una battuta; che può però illuminarci su una serie di piccole verità: che la risposta da parte del destinatario (il popolo, la gente, parafrasando Jovanotti) è episodica, tattica, disordinata, nascosta, poco elegante se non addirittura brutta… Con grande disprezzo da parte dell’intellettuale che prova a tracciarne i contorni; con grande disdetta del marketing che deve identificarne le potenzialità commerciali; con grande disdegno di culti che devono unificare le credenze, e via esemplificando.
Perché, cari noi, non è mica facile: quando Italia 1 fa una campagna chiedendo ai propri ascoltatori di inviare un promo in cui si declami “Italia 1”, cosa si aspetta di ricevere? E cosa realmente gli arriva? E, soprattutto, per quanto ci riguarda: noi, come la leggiamo? Come il tentativo di una emittente televisiva di intrufolarsi nel tessuto sociale (sai che scoperta, cosa fanno in genere i media?); oppure, fra le righe di ciò che viene effettivamente trasmesso, come la risposta disordinata, kitsch, ironica, squinternata di un popolo che dà cinque secondi di visibilità ai propri costumi culturali?
Mica facile
Mica facile, appunto, spostare l’ottica d’interpretazione. Che io sappia (ma non sono un sociologo!) l’unico che ha provato a strutturare una rete di pensiero tale da invertire, appunto, il punto di vista dal quale guardiamo le cose (ma, in specifico, il rapporto fra le cose e i loro destinatari, ovvero in fondo la cultura popolare), è stato Michel de Certau, in quel libro mirabile che è L’invenzione del quotidiano, finalmente tradotto in Italia grazie ad Alberto Abruzzese (un altro che comunque ne ha dati di riferimenti, sulle culture popolari) per le Edizioni Lavoro. Un volume apparso in Francia direttamente in tascabile nel 1980, ma che doveva far parte di una opera monumentale, finalizzata nelle origini a una ricerca sul tessuto socio culturale francese, iniziata nel 1974. Tutta la tirata che ispira questo saggio è frutto dell’insuperabile impostazione data da de Certeau al suo lavoro. Che possiamo definire ragionevolmente rivoluzionaria, opera della mente brillantissima e della cultura sterminata di un gesuita con già alle spalle una serie di studi e esperienze del tutto variegate.
Tale impostazione, soprattutto, permette di cambiare radicalmente assetto a un problema, quello della cultura popolare, stabilendo nessi con altri approcci, forse non così espliciti, anche perché in molti casi per nulla legati a una dimensione teorica, ma vincolati a quella pratica, rispetto alla quale però offrire mosse concettuali inavvertite, ma davvero esemplari. Come anche quelle di Gianluca Costantini, del quale non mi sono dimenticato, e al quale prima o poi arriveremo (pazienta, lettore che sei arrivato sin qui…).
Tanto per non fare i furbi: è chiaro che il collegamento più immediato è con i Cultural Studies anglosassoni, anche se de Certeau li ignora bellamente. Se quella di de Certeau viene amichevolmente chiamata teoria della resistenza, non si chiamava forse Resistance through Rituals la ricerca del 1976 di Hall e Jefferson che iniziò a scandagliare le sottoculture giovanili? Ricerca che in qualche maniera aprì le porte al fondamentale Subcultura. Il fascino di uno stile innaturale, di Dick Hebdidge, con tutte le implicazioni su un piano, quello dello stile, che lo stesso de Certeau affronta, in termini diversi, ma compiuti e compatibili.
Resistenza, stile
Secondo de Certeau la “gente” opera singolarmente delle mosse di resistenza al flusso egemonico dei messagi/prodotti. Cioè costruisce propri percorsi, associazioni, interpretazioni, con un’opera che l’autore definisce di bracconaggio (aleggia nell’aria il bricolage di Levi Strass, altro link possibile con i Cultural Studies); un’attività ovviamente tattica, giocata sull’immediatezza della risposta nel tempo, in contrapposizione alla visione strategica delle egemonie, dipanata nello spazio. Un procedimento incontrollabile, ma che nessuno si è occupato di osservare, convinti tutti (dai politici alle imprese) della passività della ricezione. Affermazione incontrovertibile, quest’ultima: ricordiamoci che in advertising il termine tecnico per i pubblici di riferimento è target, ovvero, tradotto letteralmente, bersaglio; anche se ultimamente i pubblicitari si sforzano davvero un sacco di usare la parola “utente”.
Una differenza che appare evidente fra de Certeau e i Cultural Studies sta nel fatto che la resistenza, in questi ultimi, viene monitorata attraverso il meccanismo dello stile all’interno di gruppi definiti, le subculture appunto, dedite all’individuazione di controcodici comportamentali tramite il collage di elementi decontestualizzati (gli scarponi militari e le spille da balia per il punk, ad esempio). Per de Certeau il meccanismo dello stile si adatta invece al singolo, o meglio a tutti i singoli, senza preoccuparsi, diciamo così, di definire un possibile livello oltre il quale si evidenzia la resistenza all’egemonia (inutile ricordare che il termine è di origine gramsciana, filtrata proprio dai Cultural Studies). Tutti operano una resistenza, tutti adottano uno stile personale, un comportamento individuale, come fosse il proprio modo di camminare.
Salmoni che resistono alla corrente? La metafora fa venire in mente i “giovani salmoni del trash” di Tommaso La branca; laddove questo temine individua proprio quella cultura spazzatura (kitsch era troppo canonico) che riempie di sé la cultura popolare. Un termine che, se vogliamo, inscatola in una formula culturale/merceologico un tipico comportamento non tanto subculturale, ma proprio popolare. Non sarebbe piaciuto per niente a de Certeau, già scomparso ai tempi della fortuna mediale del trash.
Brutti, sporchi e cattivi
Ma tale fortuna terminologica nell’establishment è l’ennesima riprova di quel meccanismo dialettico che si instaura fra cultura del mainstream e cultura popolare: si pescano dal basso quegli elementi deteriori spuntati dal brodo subculturale popular, li si lucida e li si porta al mainstream, ben contento dalla sua di avere nuova occasione per consumare. Se poi si chiarisce il meccanismo, si diventa guru dello specifico: in Tv c’è andato Labranca, con la sua formula del trash, a fare da supporto all’operazione nostalgia di Fabio Fazio, mica Salza o Alessandro Papa, autori di due saggi emotivamente partecipati sul tema; specie il secondo, che guarda caso si è inventato quel genuino tabernacolo di culture basse che è il negozio/galleria Mondo Bizzarro.
A razzolare nella cultura bassa, davvero, ci si sporca, e soprattutto ci si contamina. Non si riesce più a venir fuori bel belli sorridenti analizzando semiologicamente espressioni e contenuti, significazioni e testi, enunciatori ed enunciatari. Poffarre, non attaccano, sono strumenti che guardano le cose dall’altro lato, qui funzionano solo in parte, vanno a loro volta distillati, esattamente come i modelli culturali della popular culture devono essere distillati per renderli vendibili al mainstream. Facile, altrimenti, godere delle produzioni popolari passate e disdegnare quelle attuali: il tango oggi è arte, quando è nato era musica deteriore, da postriboli. Facile attaccare anche le produzioni di massa: ma le produzioni di massa sono inscindibilmente legate al configurarsi di una cultura popolare.
Mi viene in mente una bella definizione di Pop Underground data da Gianluca Lerici, aka (come si dice oggi) Professor Bad Trip, ormai un maestro dell’underground europeo: “Senza commissione dell’industria, finanziamenti statali, studi di marketing, da spore precedentemente cadute nascono dal basso strani funghi: Alcuni di questi sono talmente colorati, originali e belli da diventare popolari (pop) con successo commerciale e/o culturale, cioè lasciano in giro nuove spore.” Non male: ecco cosa significa dire che un autore compie sempre mosse concettuali teoriche nella pratica delle sue azioni.
Pop underground
Un’altra definizione. Gianluca Lerici, ai tempi dell’intervista citata, metteva in dubbio la attualità del termine Pop Underground, datato effettivamente 1985, coniato da Peter Belsito per il titolo di un volume (Notes from the Pop Underground) edito da Last Gasp di S. Francisco (piena tradizione underground californiana) che raccoglieva autori diversi: da Diamanda Galas a Jello Biafra, ai Survival Research Laboratories. Però, anche rileggendolo adesso, il termine ha un suo fascino: vediamo come può tornarci utile. E’ evidente: si unisce l’idea di pop a quella di underground. Pop: nel senso di popolare, non di pop commerciale. Dimentichiamo la Pop Art, ovviamente, o meglio consideriamola un’altra volta l’emersione di stimoli dal basso, che come al solito ha dato maggior fortuna a chi ha operato la ripulitura migliore e ha depositato la formula (Andy Warhol). Dimentichiamo però anche la musica pop: è popolare perché ricerche di marketing dicono che fatta così va bene per il popolo. Infatti, la IASPM, che raccoglie gli studiosi di tutte le musiche popolari (dalla dance al fandango), per allargarne il significato parla di popular (non pop) music.
Underground: sotterraneo. Un termine che ha sempre definito un aspetto produttivo/distributivo, ma evidentemente legato alle subculture: non mi sembra che nessuno si sia mai sognato di definire underground il ciclostilato settimanale dedicato alla messa in parrocchia. E’ vero che, nel momento in cui le dinamiche col mainstream si fanno più varie e complesse, si finisce per definirlo overground, come fa Sandrone Dazieri in Italia overground, perché visibile comunque a un pubblico vasto. Non è un problema di termini, è un problema di autoproduzione; in questi termini si preoccupa di fotografarlo Emigre (la bellissima rivista californiana di graphic design) in un numero monografico, il 96, dedicato al DIY (Do It Yourself), nel quale Daniel X O’Neil si impegna a segnalare che certo questo è un mercato, perché è più facile produrre e distribuire: anzi, forse è addirittura il mercato del futuro. Con le sue emersioni mainstream: Professor Bad Trip che pubblica per Mondadori; o uno che conosciamo bene, Gianluca Costantini, che porta la sua roba al Pompidou. Emersioni che non spostano né Lerici né Costantini; è un altro il punto di vista dei due: guarda dal basso, legge l’opportunità come occasione per far ricadere altre spore, non come modalità per vendere la propria formula.
Cannibal kitsch
Mi fa piacere che Gianluca Costantini abbia usato questo titolo, Cannibal kitsch, per il suo libro antologico. Mi conforta un po’, facendomi sperare che quanto detto finora non appaia il delirio di un insensato: traduzione dal romagnolo insansé, ovvero l’offesa più grande, dopo pataca, che la terra di Luca (e mia) sappia esprimere. Mi si scusi la digressione geografica, ma non dovremmo forse escludere a priori quella vena di follia, specialmente rivierasca, che pervade la zona citata (senza portare esempi).
Io lo leggo così: il cannibale mangia di tutto, anche i suoi simili; e il kitsch è una cosa con la quale non si possono non fare i conti. Questo ci aiuta a spiegare lo stile di Gianluca, che può avere mille esegeti più dotti di me; ma che ci deve anche ricordare la pratica antropologica, etnica, di un divoratore di immagini (e non solo), capace di piegarle alla propria maniacale volontà di forma. Non mi interessa ovviamente dire che Costantini appartiene all’underground: l’underground al massimo si fa, non ci si appartiene. Certo Gianluca presenta quelle costanti tipiche dell’immaginario underground: un’assoluta coerenza stilistica, capace appunto di piegare tutto al suo volere. E anche quella maniacale ricerca e determinazione formale che è mistero insondabile per chi non la pratica: come controllare il dettaglio accuratamente definito in un impianto formale panottico.
Ma questa logica dello stile è davvero una pratica di resistenza, che raccoglie spore e le fa germinare, producendone altre che altri saranno (anzi, sono) ben pronti a ricevere, in una linea di iconografie del marginale che pochi hanno l’ardire di indagare: fra questi, ricordiamolo, il maestro assoluto dell’underground italiano, nonché finissimo esegeta dell’immaginario visionario, Matteo Guarnaccia. Ed è una pratica di resistenza che, se non teme di sporcarsi (autodichiarando il kitsch) non teme neanche i confronti, sfruttando appieno qualunque interstizio si apra.
Multimodale (intramediale, intermediale…) per forza
Si poteva iniziare questo noiosissimo saggio parlando di eclettismo. Oppure si poteva citare la opportunità/necessità di dialogare con diversi sistemi mediali/modali, nella comunicazione contemporanea. E si sarebbe sempre e comunque focalizzato il discorso su un meccanismo di produzione, pur con tutti i distinguo del caso. Ma Gianluca non ha un progetto multimodale, o intermediale, per usare definizioni provenienti dalla teoria sulla cultura, oggi aggiornatissima, del progetto di comunicazione (del progetto grafico, in primis). Lui lo fa. È la prassi, la risposta immediata all’opportunità, la tattica del momento che accompagna l’allargamento verso orizzonti settoriali via via diversi. Altrimenti a raccontarlo sembra una favoletta: nasce disegnatore, diventa illustratore, fa web, filmati di animazione, espone in galleria, organizza eventi, scrive… Ma non ‘è sequenza, non c’è strategia: Gianluca fa questo e quello.
La chiave è forse comprendere che la possibilità di permeare diversi media, diversi spazi, diversi settori con scelte senza dubbio appropriate, non nasce solo da un diniego dello specialismo, o da una curiosità forsennata, o ancora da una difficoltà a sopravvivere in schemi già dati: nasce da un deciso cambiamento di punto di vista, da un comportamento che si esplicita visivamente in uno stile. Un comportamento che non vede il problema dello specialismo e della professione (questo è l’altro lato della barricata), e che non distingue fra alto e basso: ma che costruisce progetti e prodotti in una navigazione continua fra incontri culturali e incontri “operativi” (non so come chiamarli, quelli con altra gente che fa cose, gestisce spazi, stampa riviste etc). E questo nonostante il nostro sia colto, in senso canonico: s’è anche diplomato in Accademia, a Ravenna, dove però ha anche incontrato un maestro come Fabrizio Passarella che sicuramente ha rappresentato un esempio di viaggiatore disinibito fra le terre e le culture.
Io direi che Gianluca è un operatore culturale. Non lo dico perché con Elettra Stamboulis e l’Associazione Culturale Mirada organizza eventi culturali e stampa volumi, come fanno poi i suoi amici, Zograf, Sacco e compagnia, spostando il ruolo dell’autore a quello dell’ideatore di situazioni nelle quali gli autori sono a loro volta presentati. Ma proprio perché, anche in questo caso, non c’è soluzione di continuità: è naturale che la rete di riferimenti, culturali e operativi, porti a tutta un’altra serie di cose, oltre al produrre immagini da solo: nella fattispecie, porti alle collaborazioni con Passarella, porti a Inguine.net, porti a Mirada. Disclaimer: questa ipotesi mica l’ho inventata io. Lo ha detto Renato Barilli, nell’ormai lontano 1982, che l’artista è un operatore culturale, in un libro in cui, guarda un po’, si parla di fenomenologia degli stili. Ma Barilli pensa all’artista, e probabilmente ha ragione; io, in un mondo dove sono comunque artisti sia Andy Warhol che Renato Zero, oppure dove, come diceva Donald Judd, arte è ciò che si definisce arte, penso che Gianluca Costantini, per il famoso punto di vista di cui sopra, sia compiutamente un operatore culturale. Anche se non so dire se sia un artista: so che ha fatto l’artista (ha esposto opere d’arte in gallerie e musei, dunque…), ma non so se definirlo artista. Magari glielo chiedo. Non posso mica arrivare con un interrogativo, dopo 18.000 battute!