
Pubblicato in: Cannibal Kitsch n.1, Underground Press, 2005
Gianluca Costantini è piccolo, pazzo e cattivo.
Non avevo la più vaga idea di chi fosse finché Vittorio Giardino non ebbe l’idea, novello sensale, di metterci insieme all’inizio degli anni Novanta. D’altronde, io aspiravo a sceneggiare, Tini a disegnare; io abito a Cesena, Tini a Ravenna. Insomma, le nozze erano inevitabili. Ma fu vero amore?
La prima volta che lo vidi, stava sotto la tettoia degli autobus della stazione di Cesena. Pioveva a dirotto. Sotto braccio, una cartella di disegni più grande e pesante di lui. A prima vista sembrava inoffensivo: timido, un po’ goffo, piccolino. Niente che facesse presagire il successivo stadio evolutivo. Un po’ come certi Pokemon che incarogniscono.
Quando vuotò la mitica cartella, fui sommerso da decine, CENTINAIA di tavole originali e fotocopie: un magma cartaceo davvero impressionante. Fu allora che compresi: era pazzo. Un miniaturista ebbro, un infaticabile calligrafo, un inarrestabile decoratore. La sua era una bella pazzia. Ecco perché decisi di assecondarlo.
Le nostre prime collaborazioni erano del tipo professionale: io scrivevo, lui disegnava. Parlavamo e aggiustavamo le cose, ma i ruoli erano molto chiari a tutti e due. In entrambi, l’urgenza di produrre era più forte del perché farlo. Mi spiego: io volevo scrivere e lui disegnare, ma lo facevamo forse con l’ansia di essere letti, capiti, magari persino apprezzati. Devo dire che la soddisfazione di essere pubblicati ce la togliemmo, grazie soprattutto ad altri infaticabili folli assoluti del fumetto italiano come Massimo Galletti, Sandro Staffa, la gang di Interzona. Ma a Gianluca non bastava.
Scoprii che era cattivo quando mi abbandonò.
I ruoli di marito-moglie, sceneggiatore-disegnatore gli andavano stretti. Fu così che cominciò, con la consueta, trascinante energia, a crearsi le proprie tavole da solo, spingendo un po’ oltre la comune idea di fumetto. Credo che fu allora che, per la prima volta, nacque Gianluca Costantini.
Come tutti gli ex, io e Gianluca ogni tanto ci sentivamo o vedevamo. Io avevo iniziato la professione di sceneggiatore, cambiando partner a ogni storia: flirt, amorazzi, storie serie, ma mai matrimoni. Intanto, con il duro lavoro e senza compromessi, Tini si faceva un nome, gettava ponti fra arte, fumetto e internet, si faceva nuovi amici e nemici, cresceva. Contando sulle proprie gambette e poco più, diventava famoso. Oggi è molto più disinvolto, combattivo e sicuro di sé, pur restando piccolo. Attorno a sé ha un gruppo di amici in gamba quanto lui. Continua a lavorare come un dannato, senza risparmiarsi. Dove trovi tutta questa forza, per me è un mistero. Forse, in quel groviglio nero che ha al posto dei capelli, crescono radici di ginseng. O forse, nottetempo, sfrutta il muso vagamente talpesco per scavare il terreno ed estrarre miracolosi tuberi. Boh.
Fatto sta che un inatteso ritorno di fiamma ci rimette insieme: Tini mi porta una ventina di splendide tavole e mi dice “facci su una storia”. Scatta qualcosa nella mia testa, tutto quello che so o intuisco di lui si mette assieme, si canalizza e concretizza in una storia ancora in progress. Comincio a immaginare, a scrivere nutrito da quei segni, da quell’immaginario difficile, bizantino, religioso e dissacrante che gronda da pagine fittamente istoriate, arazzi, partiture musicali scandite da capricciosi ghirigori. “Macchina Suprema” nasce così. È il primo, vero nostro figlio. In molti lo vogliono già uccidere, quasi fosse l’Anticristo. Ma noi siamo genitori amorevoli. E troppo piccoli, pazzi e cattivi per lasciare che soccomba.