Testo incluso nel catalogo della mostra “Anni di guerra _ network nostrano” tenutasi alla Libreria 47thfloor di Roma dal 15 luglio al 31 luglio 2004
Un fumetto è una cosa fatta da disegni e parole. Di che fumetto si tratti dipende poi anche (e, a volte, soprattutto) da che rapporto c’è tra disegni e parole e questo vale più che mai nel caso di Gianluca Costantini e di queste sue tavole dedicate ai nostri, tristemente familiari, ormai quasi domestici, “anni di guerra”.
Le parole di Costantini sono invadenti, vanno sopra le figure, le coprono, ma non le nascondono, anzi si integrano nei segni visivi, divenendone parte, potenziandone la capacità allusiva grazie ad un loro aspetto curvo, arabeggiante.
Le parole scritte (anzi, disegnate) da Costantini, quasi fossero una rete di vocaboli gettata sulle tavole a catturarne il senso e a trattenerlo stretto, accanto al disegnatore e al suo lettore/spettatore, sono una sorta di grafemi, sono segni ‘concreti’ (nel senso che alla parola attribuivano teorici e poeti del calibro di Haroldo De Campos, o Eugene Gomringer) dove la forma materiale del supporto linguistico ha valore (formale e anche semantico) pari ai contenuti veicolati, stabilisce una forma dello scrivere, del lettering, che è esteticamente decisiva e che influisce sul senso globale della comunicazione e mi ricorda, per l’appunto, certe esperienze internazionali di poesia concreta e visiva.
Per altro verso, continuo, legato, legato quanto un corsivo, è il tratto del disegno, a volte morbido a volte spigoloso, sempre spiccatamente espressivo, nero quanto le parole che lo accompagnano, a formare con la scrittura una sorta di multiverso pittogramma, spiccatamente personale.
La ricerca di un linguaggio ‘diverso’, nuovo, va poi di pari passo con la scelta di parlare di ciò di cui non si parla, o si parla poco e male, e di farlo in modo ‘politico’, mettendo il dito nella piaga delle contraddizioni di un mondo in cui la violenza e la guerra rischiano di restare l’unico orizzonte possibile.
E così dalle tavole fanno capolino i volti di molti “che dicevano la verità” e quelli – sinistri – di chi ha scelto di eliminarli per farli tacere, a dipanare un filo rosso che comincia ieri, a Marzabotto, per terminare, oggi, in Iraq, quasi che queste tavole fossero segnali di pericolo, inviti a deviare, prima che arrivi domani, dalla traiettoria di un’autodistruzione folle e inutile, nella quale alle guerre guerreggiate si accompagnano le stragi ‘bianche’ da lavoro, i genocidi per fame, le violenze quotidiane, familiari.
Dall’intrecciarsi dei segni linguistici e di quelli iconici, dal fondersi e confondersi dei volti, dei corpi, delle cose e dei drammi disegnati, con le parole che li accompagnano in un contro-canto spesso secco, essenziale, gradevolmente stridulo, nascono personaggi che sono protagonisti di una sorta di fumetto istantaneo, che si risolve in un’unica, fulminea immagine, in un lampo crudele che squarcia il buio della pagina intorno.
Ma ognuno di questi lampi è poi elemento di un insieme che è molto più che la somma delle sue parti, che anzi costituisce un organismo, un’individualità complessa… una strana razza di fumetto, un fumetto che, se potesse descriversi in proprio, facendo a meno dei bla-bla di questo introduttore un po’ ingessato, forse direbbe, come diceva di sé Adriano Spatola, indimenticabile poeta: «io sono una città, con tutti i suoi abitanti…»