Katzyvari. Rivista stramba & pretenziosa di fenomeni subculturali 1992 | 1994
G.C. Katzyvari nasce da un gruppo di studenti dell’Istituto d’arte. Non è facile trovare storie di gruppo che partono da così giovani, soprattutto nel mondo del fumetto. Sembravate più una Band che un gruppo di disegnatori?
Nacque all’Istituto d’Arte di Pomezia, se non erro, nel quale si incontrarono David “Diavù” Vecchiato e Paolo “Ottokin” Campana. Io venivo dal Liceo Artistico di Tor Marancia e li conobbi soltanto nel 1991 al primo anno dell’Accademia di Belle Arti di Roma. Quindi già ventunenne. Ripensandoci oggi, eravamo comunque tutti giovanissimi. Mi piace molto l’immagine della band. Anche se il ’91 è stato anche l’anno della Pantera, un anno che ha segnato un’intera decade di “rinnovamento” sociale, culturale e musicale, nei collettivi studenteschi, negli spazi occupati, nei movimenti di base, in una moltitudine di forme creative poi rimaste negli anni a seguire. Quindi più che ad una band – e per attitudine personale – preferisco ancor di più pensarci come ad una posse!
G.C. Il Massacratore nacque su quelle pagine, ci vuoi un po’ raccontare la sua storia?
No, non nacque su Katzyvari ma appunto sulla fanza “Buona la prima” che citavo poco fa. Nacque come parodia del Punitore: il suo costume originario era uguale in tutto e per tutto a quello del violentissimo personaggio della Marvel, ma invece che il teschio sul petto aveva una lisca di pesce, a sottolineare la sua “italianità” con un classico simbolo di Jacovitti. Erano storie brevissime, grezze, di due pagine in bianco e nero. Ma l’idea che lo fece diventare famoso (si, posso dire che negli anni ’90 diventò davvero famoso) fu quella di far votare i lettori, che – attraverso una classifica – sceglievano QUALE personaggio veder massacrato. E si parlava di personaggi VERI dello spettacolo, della politica e del costume e della nostra bella Italietta. Su Katz, che lo propose a colori, finirono massacrati Antonello Venditti, Giulio Andreotti e Papa Wojtyla.
Poi negli anni seguenti, quando Katz e Tribù non si fecero più, quando David andò a farsi il suo Tank Girl Magazine alla Magic Press, io decisi di proseguire il Massa in formato comic book (che nei primi 4 numeri aveva comunque “Egocefalo” di Diavù in appendice) e decisi di farlo perché in quel momento il Massa aveva veramente una marea di lettori. Trovai un piccolo editore che pubblicò i primi 8 numeri mensili (andava in edicola, si) ma dopo un po’ – forte del suo successo e comunque non soddisfatto del rapporto con questo editore a dir poco losco – decisi di autoprodurmelo, camminando con le mie gambe, fondando la mia label LISKA Prod.
G.C. Il gruppo originario di Katzyvari era Diavù, Ottokin (Paolo Campana), Carlo Chericoni, Fabizio Spinelli, Fabio Bonini e tu. Com’era Stefano Piccoli in quel periodo quali erano i tuoi sogni?
Non esattamente: nel “gruppo originario” c’erano Diavù, Ottokin e Fabio Bonini come autori/fondatori, ma anche Mauro Gavillucci, un piccolo editore della stampa pontina tanto pazzo da credere in quel progetto. E che, oltre a risultarne direttore editoriale (obbligatorio per una testata che va in edicola) e ad occuparsi delle varie scartoffie burocratiche (come la registrazione al Tribunale) ci prestò “chiavi in mano” la redazione di un suo periodico locale, che potevamo utilizzare come e quando volevamo.
Io, Carlo Chericoni e Fabrizio Spinelli subentrammo in seguito. All’epoca facevamo una fanzine a fumetti che si chiamava “Buona la prima” (che veniva distribuita nel circuito delle fumetterie italiane grazie a Yamato) e il mio incontro con David e Paolo all’Accademia di via Ripetta ci fece decidere di lavorare assieme. Ma Carlo e Fabrizio non entrarono mai realmente “in sintonia” con il resto del gruppo, e uscirono velocemente dal progetto. Probabilmente dipese dal fatto che avevamo retaggi differenti. Loro due provenivano dal classico percorso dei NERD appassionati di fumetti, cartoni animati, videogiochi, fantascienza e quant’altro (e lo dico senza alcuna accezione dispregiativa, visto che la cultura NERD – oggi – è stata ampiamente “riabilitata” dal cosiddetto post-modernismo) mentre io, David e Paolo – forse per via delle scuole artistiche che avevamo fatto, così come delle primissime esperienze di attivismo politico ad esse collegate – volevamo rompere gli schemi, sperimentare, raccontare in modo diverso, senza mai mettere in conto COSA ci avrebbe portato Katz in termini di futuro, di eventuale “carriera” nel mondo dei fumetti, che di fatto perculavamo.
Quindi – ad esclusione di quei primi vagiti di coscienza politica che mi si stava ancora formando (e che mi avrebbero influenzato fino al midollo solo qualche tempo dopo) – quali erano i miei sogni?
Roba molto BASICA: dipingere, fare fumetti, bere birra, ascoltare musica, avere ragazze belle, fare l’alba 😉
Il personaggio cresceva, cambiava look e diventava qualcosa di diverso, con una sua precisa identità (liberandosi del meccanismo della votazione popolare, affrontando temi politicamente faziosi); la serie andava avanti regolarmente (con vendite di due/tremila copie a numero) fino a quando non destò l’interesse di une editore “importante” come la Play Press (che nel ’97 importante lo era davvero, essendo la licenziataria italiana di tutta la DC Comics). Il loro “ingaggio” peraltro avvenne più o meno quando stavo collaborando con Walter Venturi e il suo Capitan Italia, con il quale realizzammo un cross-over tutto italiano che andò esaurito. Così come gli albetti che dedicavo a Virgo, la compagna del Massacratore, che era capace di esaurire TUTTA la tiratura di 3000 copie nell’arco di 3 giorni di fiera!!! Ma erano altri tempi 😉
Terminata la sua serie regolare sotto LISKA Prod e terminata la miniserie con la Play Press, il Massa ebbe una quarta genesi con la FACTORY, il “consorzio” di autori indipendenti che ideai insieme a Roberto Recchioni e Luca Bertelè e che fondammo insieme a Diego Cajelli, Walter Venturi, Flavia Scuderi, Leomacs e lo stesso Ottokin. Per la Factory uscirono soltanto due numeri. Poi io uscii dalla Factory proprio quando stava raccogliendo i primi consensi. Ma non ero convinto del lavoro che stavamo facendo, o meglio dei differenti scopi per cui ognuno di noi lo stava facendo. Per dire: io ho sempre messo al primo posto la necessità di raccontare storie, non la possibile declinazione di un personaggio in videogioco, cards o diritti internazionali.
Mi allontanai del tutto dai fumetti, per un lungo periodo. Mi dedicai completamente al giornalismo musicale, prima con l’occasione che mi diede la Magic Press con la direzione di “BIZ – Hip Hop Magazine” (coronando la mia altra passione di sempre, peraltro fondandolo insieme ad Ice One che è sempre stato il mio “Sensei” nella cultura hip hop) e in seguito – divenuto pubblicista iscritto all’albo, proprio grazie a BIZ – per tante altre testate italiane, musicali e non. Anche su un magazine superpatinato da 400mila lettori a settimana come Vanity Fair, per dire Ho provato a tornare sul personaggio pochi anni fa, con una nuova serie (Bottero Edizioni) per certi versi molto più sperimentale. Ma non ha funzionato. Evidentemente il Massacratore ha fatto il suo tempo, e ho preferito interrompere questo nuovo percorso lasciandogli – se possibile – quell’aurea di cult del fumetto indipendente degli anni ’90 che si è conquistato.
G.C. E’ vero che nel 1993 la Digos si presentò in tipografia con l’intenzione di requisire le copie di Katzyvari perché in copertina il Massacratore stava per schiacciare Andreotti con il tricolore di sfondo?
Si, è vero. Tieni presente che per una tipografia era OBBLIGATORIO spedire una copia di qualsiasi cosa stampasse al commissariato di Polizia di competenza. Lo scambiarono per un organo di propaganda fascista, o anarchica, o chissà cos’altro. Qualcosa del genere, insomma. Chissà se anche oggi – nell’era di internet e dei social networks – le tipografie hanno questo stesso obbligo?
G.C. Per te Katzyvari era una rivista underground? Oppure qualcos’altro?
Non saprei. Nel senso che – rivendendo tutto con gli occhi di oggi – probabilmente non avevo nemmeno un’idea ben precisa di cosa fosse “underground” o meno. Peraltro è un termine che non ho mai amato molto, che tutto sommato non mi è mai appartenuto. Ho sempre preferito utilizzare la parola “indipendente” su tutti i progetti a cui ho lavorato. Anche la stessa LISKA Prod era la mia etichetta indipendente, non underground.
Per me Katzyvari era semplicemente un mezzo per fare cose. Per raccontare e disegnare le mie robe. Per stare insieme ad amici. Per condividere esperienze. Per muovermi.
G.C. Frequentavi il festival H.I.U.?
No, in quegli anni casomai andavo ad Arezzo Wave 😉
G.C. Perché ad un certo punto il gruppo Katzyvari non funzionò più?
Credo di aver già risposto prima. Fu una questione di scopi e AMBIZIONI differenti, per i quali – probabilmente a ragione – arrivò un momento in cui ognuno di noi DOVEVA seguire altri percorsi.
G.C. Che cosa fa adesso Stefano Piccoli?
Faccio ancora fumetti, quando capita. E lo dico prendendomi in giro da solo, visto che molti amici disegnatori mi chiamano “il pensionato d’oro” (quando vogliono essere affettuosi, altrimenti mi hanno anche definito “fumettista part-time”) e visto che nel frattempo non sono diventato un famoso autore Bonelli!!! Cosa che difficilmente sarebbe potuta succedere, considerando che ho sempre voluto lavorare sui MIEI progetti, raccontando le MIE storie, con il MIO linguaggio e il MIO stile. Di fatto, escludendomi a priori tante opportunità. Ma sono scelte. Autoriali e anche umane.
Ho appena terminato il mio secondo libro a fumetti per la Tunué – “Kuore nella notte” – che uscirà il prossimo autunno (ottobre 2014).
E sto già lavorando al libro seguente, che – per una casualità mai tanto triste come la cronaca di questi giorni (e se parlo di casualità, è perché ho cominciato a lavorarci svariati mesi fa, ben prima che potessimo anche solo immaginare questa drammatica Operazione Protective Edge) – è la mia prima incursione nel graphic journalism, visto che si tratta della storia (a fumetti) di Vittorio “Vik” Arrigoni, realizzata insieme a Luca Persico a.k.a. ‘O Zulù dei 99 Posse e ad Alessandro Di Virgilio (ma anche con l’approvazione/supervisione di sua mamma Egidia Beretta Arrigoni e i contributi di tanti altri giornalisti, autori, medici, reporter di guerra) che vedrà la luce nella primavera del 2015.
Insomma: ho sempre sostenuto che in Italia sono tutti più bravi di me a fare fumetti (e infatti da molti “colleghi” dell’ambiente non sono nemmeno considerato capace a farli) ma – vuoi o non vuoi – per ogni detrattore c’è sempre un estimatore, e il fatto che lì fuori abbia sempre trovato editori disposti a pubblicare le mie cose, beh, qualcosa vorrà pur dire, no?
Nel frattempo campo come posso con la grafica, il giornalismo musicale e la direzione artistica di eventi. Ma solo quando non faccio il papà 😉