Katzyvari. Rivista stramba & pretenziosa di fenomeni subculturali 1992 | 1994
A.C. Da cosa è scaturita la necessità di creare una rivista come Katzyvari, come è nata l’idea, costituita la redazione e gestite le mansioni all’interno della stessa.
La necessità di pubblicare Katzyvari? Ah, devo rovistare nella memoria e risalire a fine anni ’80 per ritrovare quel gruppetto di studenti dell’Istituto d’Arte di Pomezia che ebbero la necessità di unire le forze per lasciare una traccia di sé. Eravamo appassionati di libri, grafica, musica, fotografia ed espressione artistica in genere, ma soprattutto di fumetto, e dopo quel 23 giugno 1988 in cui morì Andrea Pazienza ci rendemmo conto, anche a spese nostre, che qualcosa in edicola stava radicalmente cambiando. Qualcosa che avrebbe portato alla morte le riviste contenitore di fumetto.
Io trascorrevo nottate a disegnare, inchiostrare e colorare tavole a fumetti che nessuno avrebbe mai letto e quando mi presentavo alle case editrici delle riviste che regolarmente acquistavo in edicola la risposta che ricevevo era un no grazie, accompagnato dalla seguente motivazione: «a voi giovani Pazienza vi ha rovinato!».
In quelle tavole in cui io trovavo elementi comuni a quelli di altri autori della mia generazione, seppur espressi con stili diversi, gli editor delle riviste vedevano solo caos e trovavano negativo quello stile contaminato dall’arte quanto dai cartoon, prima realistico e la vignetta dopo grottesco e demenziale, realizzato con tecniche sia nobili come china e acquerello, che inopportune, come pennarelli più o meno scarichi.
Quel fumetto-non fumetto di sperimentazione, naturale erede degli autori che ci avevano appena preceduto, e impaginato senza rispettare troppo ritmi e regole, lo rifiutavano.
Così come tanti altri giovani autori stavo sottoponendo ai vari redattori per i quali Tex e Hugo Pratt erano ancora lo standard-fumetto e Alex Raymond l’ideale, una libertà stilistica che avevano dovuto fino a poco prima faticosamente mandar giù proprio a causa di Andrea Pazienza, il quale aveva però i numeri per permetterselo quel caos. Anzi, visti i numeri che faceva se lo litigavano Paz, malgrado le lettere di protesta dei lettori padri di famiglia.
Una volta morto Paz sarebbero arrivati qualche anno dopo i vari Mollica, Grifi & co. a ripulire anche la sua eredità esplosiva, sconcia e irriverente, con una poetica da sagra paesana. Entrambe le direzioni editoriali, sia quella che tentava di cancellare l’eredità degli autori “alla Figidaire” che quella convinta di recuperarla esaltandone alcuni aspetti estetici ed epurando quelli scomodi, stavano negando spazio ai veri eredi di quel modo di fare fumetto. Che infatti sono cresciuti nell’underground, pubblicando a spese loro.
Ma torniamo a quel gruppetto di studenti d’arte.
Io e Otto Kin (Paolo Campana) assieme ad altri due amici delle nostre rispettive classi avevamo tirato su, nel 1989 se non ricordo male, un programma settimanale su una tv locale che parlava principalmente di fumetto, film di animazione, musica e cinema. Andavamo a fare interviste e servizi nei vari luoghi di queste arti, a Lucca Comics piuttosto che al Folkstudio, ai festival come per strada, poi li montavamo al volo e li mandavamo in onda su questa tv che si chiamava Telelupa, erede della più clandestina Telelupo ed ugualmente nota solo per i film porno della notte.
Ma una piccola tv non permetteva il contatto diretto col pubblico perciò decidemmo di investire tutte le nostre forze su una rivista, in grado di arrivare nelle edicole in tutta Italia e che ci permettesse soprattutto di pubblicare i nostri fumetti, quelli a cui gli editori sbattevano la porta in faccia inorriditi.
Andammo a disturbare un po’ dei nostri “miti” pur di avere dei loro piccoli interventi, da Fellini a Jacovitti, da Nanni Loy a Roberto ‘Freak’ Antoni, passando per tutti gli autori di fumetti di cui eravamo estimatori. Ma fu solo nel 1992 che riuscimmo a tirare su i soldi necessari, attraverso pagine di pubblicità che noi stessi disegnavamo, per pubblicare un numero zero ingenuo ed impacciato. L’anno successivo Paolo e io, ormai all’Accademia di Belle Arti di Roma e dopo una breve esperienza nell’animazione (io prima lavorai come animatore per Tiramolla, poi assieme realizzammo con altri disegnatori e un professore del nostro ex-Istituto d’Arte varie sigle animate per Videomusic), riuscimmo a tirar su una redazione con vari collaboratori, tra cui la band demenziale rock dei Santarita Sakkascia e Antonio Rezza, 4 scalpitanti giovani autori (Stefano Piccoli, Carlo Chericoni, Fabrizio Spinelli, Fabio Bonini), un esperto di cinema (Roberto Pisoni) e un direttore responsabile (Mauro Gavillucci) che ci forniva generosamente i primitivi Apple Macintosh Classic e l’ufficio del suo periodico locale all’Agro Pontino, a una quarantina di km da Roma. Là trascorrevamo lunghe notti tra tastiere, matite, forbici, cutter e colla con cui impaginavamo a mano, tipo collage, ogni doppia pagina di Katz, notti dalle quali io rincasavo la mattina all’alba per andare poche ore dopo alle lezioni in Accademia a via di Ripetta.
Fondammo una nostra casa editrice, il cui nome “Inca” era ispirato ad un fumetto di Apaz in cui affermava che avrebbe chiamato suo figlio Inca, e firmammo un contratto per la distribuzione in edicola in tutta Italia, che si rivelò un contratto capestro. Il distributore capì al volo che aveva a che fare con dei polli ventenni alle prime armi che avrebbero venduto le chiappe pur di andare in edicola e, nel momento della resa dei conti dopo l’uscita del terzo numero, invece di pagarci lui le copie vendute – e ne aveva vendute il maiale – ci trovammo noi a dargli 5 milioni di lire, che proprio non avevamo, grazie alle varie voci di spesa che aveva ficcato in quel contratto.
Iniziai là a perdere tutti i capelli per lo stress (ma trovammo i soldi e salvammo le chiappe).
Le riunioni redazionali poi? Infinite e devastanti. Io volevo più cattiveria e meno fumetto tradizionale, infatti l’inserto “ Katyamari” (o “Cazzacci”, ecc, cambiava nome ogni volta), era il regno mio e di Ottokin, oltre che delle bestemmie e dell’iconoclastia. Poi c’era chi premeva invece per il fumetto di fantascienza, anche se rivisto e corretto in chiave ironica, chi voleva più sesso pecoreccio, chi più riferimenti al mondo del fumetto e dei supereroi, chi più spazio per gli articoli, chi più satira, chi più demenziale, e insomma alla fine veniva fuori un gran minestrone che non era carne né pesce.
Tutti avevamo poi il compito di cercare la pubblicità e, dopo l’orario delle lezioni, ci avventavamo col menabò sotto al braccio tra negozi e locali per procurarci i soldi per il tipografo. Ma con dei contenuti simili non era facile trovarli.
Le notti che non eravamo in redazione andavamo, soprattutto Paolo, Stefano e io, ad attaccare i poster in giro per Roma. Erano locandine dove c’era il mio personaggio Kontrol al centro in posa da fucilazione, il muro sul retro forato e sanguinante e il logo Katzyvari in alto. L’altra immagine tratta da Katzyvari che mi ricordo attaccai in giro per un periodo era la foto di Papa Giovanni XXIII in posa da benedizione al quale disegnai una pistola fumante in mano.
All’epoca andavo in giro per Roma alla ricerca dei graffiti dei writer alle stazioni della metro B piuttosto che sui vagoni per fotografarli, e idem facevo quando avevo l’occasione di andare in altre città. Il Writing era una pratica che seguivo con attenzione, comprando riviste e fanzine come Aelle o Tribe, dove e quando le trovavo. Inoltre avevo studiato grafica e pubblicità, e per entrambe queste ragioni, Writing e studio dei linguaggi pubblicitari, mi sembrava naturale che infestassimo anche noi la città coi nostri poster e con quel logo misterioso. Non avevo mai sentito parlare di poster art all’epoca ma coi nostri disegni incollati sui muri di Roma era quella roba là che stavamo facendo in quei primi anni 90.
L’incontro con Sandro Staffa/AlePOP avvenne a Lucca Comics del 1993, il secondo anno in cui andammo con lo stand, se non mi ricordo male. Noi gang di Katzyvari avevamo realizzato un inserto su Frigidaire di quel mese, unico giornale che ci aveva accolto a braccia aperte (e Sparagna in cambio di tutta quella generosità ci chiese se potevamo fargli un prestito di cinque milioni di lire, chissà…forse aveva il nostro stesso distributore?!). Sandro aveva dei fumetti in quel numero di Frigo o in quelli precedenti. Avevo conosciuto il suo lavoro su quelle pagine e mi aveva colpito e a Lucca presi la sua rivista BZZ Comix.
Fu Sandro ad avvicinarci, d’altronde lo stand di Katzyvari era piuttosto visibile: posizionavamo sagome giganti dei nostri personaggi che spiccavano in alto, e all’epoca eravamo i soli a farlo perché non si usava ancora allestire lo stand tipo carro carnevalesco (e nel nostro caso era coerente con lo spirito della rivista). Avevamo poi scenografie fatte di megadisegni sui pannelli degli stand e di cessi riempiti con le altre riviste, facevamo baccano con megafoni e musica, e tutto ciò malgrado spesso fossimo ospiti di amici con stand grandi a cui scroccavamo degli angoli.
Anzi, eravamo sempre ospiti…mai pagato uno stand se non ricordo male.
Comunque ci siamo piaciuti con Sandro perché anche lui aveva quella stessa lente deformante che permetteva di vedere nitidamente il marciume nascosto dalla facciata ipocrita del contesto sociale in cui vivevamo e di riprodurlo ridendoci su, con cinismo amaro e niente affatto compiaciuto.
Dopo la chiusura di Katzyvari prima versione a colori da edicola tentai l’esperimento Tribù a inizio 1994 con Sandro Staffa, Otto Kin, Maurizio Ribichini e Stefano Piccoli, ovvero una rivista che per me ha rappresentato un po’ la via di mezzo tra Katzyvari e Tank Girl magazine. A fianco ai fumetti si parlava di musica, di guerra nei Balcani e di Africa, ma anche delle crew di writers e di varie culture underground. Nel primo numero davamo voce a Polo della KTM crew di Napoli, agli autori della fanzine Citoplasma e del libretto Rappitalia di Stampa Alternativa che monitorava il fenomeno delle posse, ai fumetti del writer romano Pane a fianco a quelli di Gianluca Costantini e Daniel Zezelj, insomma cercavamo di divulgare i “movimenti” a cui eravamo vicini. Ma io mi annoiavo a fare il cronista in modo così serio e, dopo un quinto numero di Katyvari fotocopiato, da solo con Sandro sfornai un sesto numero di Katz nel 1996, io e lui da soli, facendo incazzare ovviamente tutti gli altri che fino a quel momento avevano partecipato ai giochi, ma lasciando almeno un’ultima traccia di come avrebbe dovuto essere quel magazine fin dall’inizio, intriso di snobismo anarchico demenziale e sboccato, e scevro da fumetti di pseudofantascienza o pseudoavventura e da testi autoreferenziali. Glielo dovevamo alla creatura Katz.
A.C. Come vi rapportavate tu e Sandro Staffa, dislocati come eravate in due punti geografici distanti come Roma e Vicenza (dove Sandro risiedeva al tempo se non erro) in un periodo storico dove tutto funzionava viaggiava con le Poste Italiane.
Beh, viaggiavamo noi due direttamente, più io che lui direi, per evitare di far perdere tavole originali a fumetti dalle Poste Italiane. In quel modo potevamo progettare, disegnare, discutere e soprattutto cazzeggiare, facendo le vocine per ore come veri idioti mentre si pensava a realizzare contenuti e numeri di Katzyvari che non sono mai usciti per mancanza di soldi. Si parlava a ruota libera, simulando le false telefonate delle Brigate Rosse, le scenette del cantante modaiolo francese Jean Jean De La Jean, i comizi del compagno fattone di Radio Onda Rossa, i turpiloqui de Lo Sfracellatore e macchiette varie da avanspettacolo schizofrenico mai messe su carta.
A.C. Su Katzyvari appaiono per la prima volta i personaggi di Benito Meniconi aka lo Sfracellatore e quello di Kontrol, il primo calato in una realtà romanesca, con un umorismo greve proprio come greve è la tipologia di personaggio che stigmatizzi (l’estremista di destra). Non hai mai temuto potesse essere frainteso? Che reazioni ricordi suscitò?
La Digos nell’aprile del 1993 si presentò in tipografia con l’intenzione di requisire tutte le dodicimila copie del numero due di Katzyvari solo perché c’era il Massacratore di Stefano in copertina che stava per schiacciare Andreotti col tricolore di sfondo. Scambiarono la rivista per propaganda neonazista. Da giovane irresponsabile la cosa mi divertì parecchio, e mi divertì soprattutto il fatto che, tra i carabinieri che leggono le testate (che i tipografi per legge devono spedirgli) e la Digos che si prese la briga di indagare e addirittura il disturbo di andare fino dal tipografo, nessuno aveva colto lo spirito anarchico del giornale, altro che neonazista! Che tristezza. E ti racconto questo per intenderci su quanto me ne potesse fregare delle reazioni dei lettori a Benito Meniconi aka Lo Sfracellatore. Apparentemente nato per prendere in giro lo stesso Massacratore che fino al numero prima era sulle pagine di Katz, Benito era in realtà il risultato di ciò che vedevo per strada: il ragazzetto romano, anzi romanista, incivile e maleducato simpatizzante di destra, il maschio beota viziato da mammà incapace anche di sollevare una sedia e intollerante verso tutto e tutti che si crogiola chiuso nel proprio microcosmo, dove lui è il supereroe assoluto, perché ha paura di rapportarsi col mondo. Il violento a chiacchiere, una tipologia di umano ridicolo che, disegnandola, esorcizzavo assieme al mio lato intollerante. L’autoironia è un’arma che maneggi contro te stesso perciò devi essere onesto intellettualmente e al contempo spietato per farlo.
L’unico rammarico che ho per Benito Meniconi è che, dopo la breve vita su Katz, qualche apparizione in striscia sull’ultima versione di Cuore e un web cartoon del lontano 2000 (anche piuttosto seguito per quelli che erano i numeri che faceva internet all’epoca) non ho mai trovato un editore disposto a pubblicarlo, un po’ a causa di quell’umorismo greve e pesante ma soprattutto della paura di essere fraintesi di cui parli tu. Peccato, a me è sempre sembrato neorealismo contemporaneo. Nemmeno lo scurrile Vernacoliere accettò Benito anni dopo quando glielo sottoposi. Cardinali mi scrisse chiedendomi di farlo parlare toscano, dimostrando di non capire un tubo della realtà di cui tratta il personaggio.
Quindi il personaggio è stato sicuramente frainteso, magari non sono stato preso per fascista io, ma qualcuno ha di sicuro pensato che stessi esagerando col cinismo disegnando un naziskin alla matriciana che diventa supereroe ed esprime con leggerezza demenziale violenza, razzismo, maschilismo, populismo e compagnia bella. Ma io non mi interesso di comunicazione, ho sempre fatto arte mentre producevo qualcosa, un dipinto, un fumetto, un brano musicale o altro, quindi non mi interessava indagare se ero compreso o frainteso.
Anche Kontrol rappresentava un reietto della società, è un freak nato con un preservativo al posto della testa nei quartieri spagnoli di Napoli per un incesto tra un grezzo padre padrone e una figlia di facili costumi, la quale costringe il padre a mettere il profilattico ma lui lo perde dentro di lei perché è incapace ad usarlo. Kontrol finisce in cottolengo da suore torturatrici e diventa un raver tossico e cannibale. I suoi stessi compagni di bravate devono sempre stare attenti a non finire stuprati o divorati da lui. Questo è ciò che pensavo di molti raver e strafattoni che frequentavo negli anni 90. Sentivo di perdere il mio tempo con gente così – e anche i centri sociali in cui siamo cresciuti artisticamente e che abbiamo amato erano pieni di ignoranti che ti avvicinavano solo per chiederti spicci e sigarette o per venderti erba – eppure continuavo a perdercelo tempo, un po’ per un senso superiore di appartenenza che andava oltre questi piccoli ostacoli e un po’ per raccontare e prendere per il culo anche loro a modo mio. Verso i quali provavo affetto.
A.C. Sei stato uno dei pochi autori italiani del periodo a fare un uso apertamente satirico e grottesco dei personaggi, restando nel tuo specifico un unicum, non eri un autore di satira, non risentivi di una diretta influenza dalla scena anglosassone o americana, fatta forse eccezione per alcune strizzate d’occhio stilistiche al lavoro di Hewlett su Tank Girl. Quali sono state le tue influenze e come ti collocavi all’interno del panorama che si stava sviluppando, che aspettative nutrivi da quel periodo così fervido di iniziative e opportunità?
I miei riferimenti erano senz’altro in ciò che guardavo e leggevo, ovvio. Tra i fumetti amavo Alan Ford e tutto ciò che aveva prodotto Magnus, sublime incontro tra segno grottesco ed elegantissima tecnica, leggevo Frigidaire dove seguivo soprattutto Pazienza e Mattioli, ma ammiravo anche il segno di Tanino Liberatore. Mi facevo tenere da parte dalla mia libreria di fumetti di fiducia anche tutte le produzioni underground sia USA che di tutto il mondo più lercie e sconosciute, mentre in edicola compravo le riviste-contenitore di fumetto, assieme a Phototeca, a Interview o altre riviste estere che trovavo solo nella solita edicola a via del Corso. Finivo i miei soldi in carta. Amavo gli scritti e il cinema di Pasolini, il veleno di John Waters, i testi spietati di Flaiano e Celine, l’immaginario da sogno di Fellini. La religione che sentivo di dover coglionare nei miei disegni, oltre a quella cattolica, era Disney.
Tornando al fumetto, dopo il periodo francese di Metal Hurlant e quello italiano di Cannibale, Il Male e Frigidaire, la palla della controcultura mi sembrava passata all’inglese Deadline, dove appunto seguii con attenzione il fenomeno Tank Girl che percepivo come la produzione più vicina alla mia idea di storia e disegno in quell’inizio anni 90. Avrei desiderato pubblicare io una specie di Deadline italiano.
Come mi collocavo in quel panorama mi chiedi? Ma sai, non lo so, se parliamo di panorama fumettistico io non ho mai sentito di occupare un ruolo. Non mi sono mai sentito un fumettista a dirtela tutta, perché non vedevo il mio lavoro adatto al mercato italiano dell’epoca. Mi sembrava di essere un cronista cinico in salsa cartoon, e anche piuttosto pigro se vuoi, dotato di quella lente deformante di cui ti parlavo poco fa. A me interessavano le storie di Crumb e di Julie Doucet, il segno di Clowes, i libri e gli articoli di Hunter S. Thompson e gli incredibili disegni di Ralph Steadman che li accompagnavano, mi interessavano i Monthy Pyton e Petrolini, l’avanspettacolo e le biografie dei personaggi più crudeli della Storia. I supereroi avevo smesso di leggerli da ragazzino e di Dylan Dog non ho mai letto un numero, o meglio ci provai ma non ci sono mai riuscito per un mio limite, lo trovavo mero intrattenimento con la morale incorporata. Mi sembrava il trasgressivo dell’oratorio. Nel panorama artistico in genere sentivo invece di occupare un ruolo in crescita, ma allo stesso tempo vedevo, anno dopo anno, che qua in Italia noi artisti underground eravamo sempre fermi e inascoltati mentre all’estero i nostri colleghi procedevano verso una consapevolezza nel definire uno spirito dei tempi che fu poi etichettato come Lowbrow o Pop Surrealismo, e che avremmo riconosciuto in altri casi nella pratica della street art.
A.C. Sei stato uno dei pochi autori italiani del periodo a fare un uso apertamente satirico e grottesco dei personaggi, restando nel tuo specifico un unicum, non eri un autore di satira, non risentivi di una diretta influenza dalla scena anglosassone o americana, fatta forse eccezione per alcune strizzate d’occhio stilistiche al lavoro di Hewlett su Tank Girl. Quali sono state le tue influenze e come ti collocavi all’interno del panorama che si stava sviluppando, che aspettative nutrivi da quel periodo così fervido di iniziative e opportunità?
I miei riferimenti erano senz’altro in ciò che guardavo e leggevo, ovvio. Tra i fumetti amavo Alan Ford e tutto ciò che aveva prodotto Magnus, sublime incontro tra segno grottesco ed elegantissima tecnica, leggevo Frigidaire dove seguivo soprattutto Pazienza e Mattioli, ma ammiravo anche il segno di Tanino Liberatore. Mi facevo tenere da parte dalla mia libreria di fumetti di fiducia anche tutte le produzioni underground sia USA che di tutto il mondo più lercie e sconosciute, mentre in edicola compravo le riviste-contenitore di fumetto, assieme a Phototeca, a Interview o altre riviste estere che trovavo solo nella solita edicola a via del Corso. Finivo i miei soldi in carta. Amavo gli scritti e il cinema di Pasolini, il veleno di John Waters, i testi spietati di Flaiano e Celine, l’immaginario da sogno di Fellini. La religione che sentivo di dover coglionare nei miei disegni, oltre a quella cattolica, era Disney.
Tornando al fumetto, dopo il periodo francese di Metal Hurlant e quello italiano di Cannibale, Il Male e Frigidaire, la palla della controcultura mi sembrava passata all’inglese Deadline, dove appunto seguii con attenzione il fenomeno Tank Girl che percepivo come la produzione più vicina alla mia idea di storia e disegno in quell’inizio anni 90. Avrei desiderato pubblicare io una specie di Deadline italiano.
Come mi collocavo in quel panorama mi chiedi? Ma sai, non lo so, se parliamo di panorama fumettistico io non ho mai sentito di occupare un ruolo. Non mi sono mai sentito un fumettista a dirtela tutta, perché non vedevo il mio lavoro adatto al mercato italiano dell’epoca. Mi sembrava di essere un cronista cinico in salsa cartoon, e anche piuttosto pigro se vuoi, dotato di quella lente deformante di cui ti parlavo poco fa. A me interessavano le storie di Crumb e di Julie Doucet, il segno di Clowes, i libri e gli articoli di Hunter S. Thompson e gli incredibili disegni di Ralph Steadman che li accompagnavano, mi interessavano i Monthy Pyton e Petrolini, l’avanspettacolo e le biografie dei personaggi più crudeli della Storia. I supereroi avevo smesso di leggerli da ragazzino e di Dylan Dog non ho mai letto un numero, o meglio ci provai ma non ci sono mai riuscito per un mio limite, lo trovavo mero intrattenimento con la morale incorporata. Mi sembrava il trasgressivo dell’oratorio. Nel panorama artistico in genere sentivo invece di occupare un ruolo in crescita, ma allo stesso tempo vedevo, anno dopo anno, che qua in Italia noi artisti underground eravamo sempre fermi e inascoltati mentre all’estero i nostri colleghi procedevano verso una consapevolezza nel definire uno spirito dei tempi che fu poi etichettato come Lowbrow o Pop Surrealismo, e che avremmo riconosciuto in altri casi nella pratica della street art.
A.C. Katzyvari era una delle poche, forse l’unica rivista underground presente anche sul circuito delle edicole, una cosa inedita per una simile pubblicazione che oltretutto presentava tematiche prive di compromessi, il pubblico come reagì? Come si tradusse questa presenza in termini di venduto?
Il pubblico si divertiva, scriveva da tutta Italia, votavano per chi dovesse massacrare il Massacratore, mandavano parolacce ed insulti, insomma interagivano stando al nostro gioco. I giornalisti che scrivevano all’epoca di fumetto sulle testate nazionali ci dicevano che non ci avrebbero mai recensiti «con quel nome lì», ma malgrado la loro indifferenza erano in molti a sapere che esistevamo. Stefano Disegni ad esempio si incazzò perché lo prendemmo di petto in modo scorretto sulla rubrica Pendagli da Forca. Noi non volevamo ferirlo sul serio, figurati, la nostra era solo la stessa forma di ironia feroce e grave che avevamo coi lettori e tra di noi, e che scaturiva dal carattere del singolo personaggio con cui firmavamo il pezzo e non dal reale autore (oltretutto era una rubrica che sarebbe stata scritta a più mani). Per noi fu un gioco anche la sua incazzatura, i problemi veri ci sembravano altri, come procurarci i soldi per pagare il tipografo ad esempio.
In termini di venduto non ci capimmo mai nulla a causa di quel contratto-capestro di cui ti dicevo prima, credo che vendevamo sulle tremila copie a numero, di meno o forse di più, boh. Del numero che realizzammo Sandro e io da soli e che distribuimmo in circuiti non da edicola furono stampate tremila copie se non sbaglio, e non ce ne rimasero granché.
A.C. Lo svilupparsi della scena romana indipendente è passato attraverso parte della tua carriera editoriale e ha perdurato in un crescendo di collaborazioni che ti hanno portato fino alla scena “mainstream”, pur mantenendoti profondamente legato a tutta la cultura underground.
Di tutto quel mondo così ricco di pubblicazioni come LolaBrigida, Centrifuga, Kerosene… solo per citarne alcuni, che ricordo hai, qual era l’interazione tra gli artisti della capitale?
Allora, esponiamo per bene cosa intendi con la prima parte della tua bella domanda perché chi non è addetto ai lavori non ha gli elementi per capirla. “Lo svilupparsi della scena romana indipendente è passato attraverso parte della tua carriera” tradotto si può leggere che, come altri miei colleghi in Italia che hanno coltivato il mio stesso senso di appartenenza, mi sono fatto il culo a strisce vent’anni per pubblicare, far pubblicare, esporre e promuovere dal 1992 – anno di uscita del primo Katzyvari – al 2012 circa – anno di chiusura della galleria Mondopop – il lavoro di tanti colleghi che ho cercato in vari modi di coinvolgere in progetti di collaborazione, e non solo editoriale, ma di coesione, movimento artistico, insomma di insieme in cui ognuno poteva esprimere se stesso liberamente (e ancora in parte lo faccio curando il progetto MURo Museo di Urban Art di Roma dal 2010).
Dopo varie esperienze editoriali ed espositive, il periodo “mainstream” a cui ti riferisci è arrivato nel 2005 con La Repubblica XL, mensile di cui anche tu hai fatto parte, in cui mi sono prodigato a presentare tanti nuovi talenti del fumetto italiano nella rubrica “Italian Underground”, ma anche tanti nuovi nomi dell’arte contemporanea, che non avrebbero magari pubblicato così facilmente in un periodico nazionale di un così grande gruppo editoriale.
Nel frattempo nel 2007 ho fondato con Serena Melandri la galleria Mondopop e, con grande impegno economico entrambi abbiamo cercato di condividere con altri artisti un progetto di arte contemporanea che avrebbe potuto offrire ottima visibilità a molti. E sono contento se sono riuscito a contribuire a svecchiare un minimo il gusto estetico in Italia e a sfondare qualche impenetrabile barriera istituzionale, come quando abbiamo esposto artisti urban e lowbrow per due anni di seguito nel 2009 e 2010 al Museo MADRE di Napoli.
In questi lunghi anni nel frattempo, pur pubblicando su settimanali, mensili e vari periodici nazionali da edicola (vedi Musica di Repubblica, Rockstar, Rumore, Linus, Carta e altri) quando mi chiedevano dei miei fumetti, delle illustrazioni o dei disegni per riviste autoprodotte e fanzine che vedevo nascere anche sulla scia dei nostri percorsi da Katzyvari in poi, io ne ho sempre donati in ogni occasione, anche se molti di questi progetti mi sembravano più dei contenitori a formula chiusa in cui ognuno tentava di far emergere il proprio individualismo, mentre io stavo cercando da anni di condividere davvero con gli altri il senso del contenuto di un progetto, che fosse una rivista, un inserto o uno spazio espositivo.
Ecco, spiegata la storia, veniamo ai risultati di cui mi chiedi.
Nelle esperienze editoriali underground si costituivano delle specie di matrimoni con alcuni dei colleghi partecipanti, i quali se tu mollavi perché ti ritrovavi con le energie esaurite o con dei conti troppo alti da pagare ai tipografi (e non tutti i “colleghi” erano disposti a risponderne), loro si risentivano con te perché non te li portavi dietro nelle riviste successive. Certo, se avesse avuto senso il loro materiale li avrei coinvolti, ma in quel momento e per il nuovo tipo di progetto che stavo curando non ne aveva. Nelle pubblicazioni mediamente note, in cui metto per prima cronologicamente Tank Girl Magazine, ero costretto a dare una guida chiara e decisa – viste le esperienze troppo democratiche precedenti – e là i compari coinvolti si contrariavano perché ero io ad avere l’ultima parola e non loro. Ma ero io il direttore che doveva cercare gli sponsor, correre da una parte all’altra a raccogliere tavole a fumetti, floppy disk con testi e fotografie, e a dover anche convincere ad ogni numero l’editore che era giusto pubblicare quella rivista di cui lui non comprendeva in senso né lo stile.
Riguardo la galleria Mondopop invece alla fine ci si è arresi al fatto che per molti colleghi artisti, che per la prima volta esponevano perché ero io il primo ad aver creduto nel loro lavoro, il progetto in cui li avevo coinvolti rappresentava solo una vetrina per saltare in gallerie più serie”, quelle che un anno prima neanche li cagavano. Ma questo comportamento era anche ovvio, stavo dando spazio ad una generazione successiva alla mia, che ormai del senso di appartenenza di cui ho parlato prima (e che secondo me tra artisti dovrebbe esistere anche per tutelarsi a vicenda da squali e perdigiorno) non gliene proteva fregare di meno.
E riguardo XL? Ho un aneddoto, uno dei tanti che mi viene in mente che può chiarirti come la vedo.
Tre o quattro anni fa stavo parlando a Lucca Comics & Games con un giovane autore che realizzava una fanzine (o la realizza ancora, boh!), nel suo stand dove io ero andato a trovarlo e a sfogliare copie (e non nello stand di XL dove lui avrebbe potuto portare la sua rivista e parlarcene). Mentre gli spiegavo che non era affatto facile dentro XL recensire tutte le pubblicazioni underground che avrei voluto promuovere, e la sua per esempio non ero ancora riuscito a proporla, lui mi disse con aria di superiorità una cosa tipo: «te la sei voluta, un grande potere comporta grandi responsabilità», come se la mia scelta e il mio impegno a far uscire allo scoperto autori e produzioni underground sul mensile de La Repubblica non fossero stati tali, ma bensì ordini imposti da chissà chi sopra di me.
Ecco, una metà dei soggetti con cui ho avuto a che fare in questi vent’anni è stata di inconsapevoli, aspiranti furbetti e geni più che incompresi incomprensibili.
Ma per fortuna c’è stata e c’è ogni giorno un’altra metà composta da tantissime belle persone a cui voglio un gran bene, amici e non solo colleghi, e con loro ho fatto tante esperienze formative grazie alle quali non tornerei indietro di un millimetro. Insomma, per tornare alla tua domanda, mi spiace deluderti ma non ho mai visto una forte intenzione comune in questi due decenni tra gli artisti della capitale. Roma è una città ancora pontificia, si è divisi per parrocchiette e ognuno manda avanti la propria diocesi facendo la guerra alle altre, e se tu ti impegni in progetti condivisi diventi facile bersaglio di tutti gli individualisti in cerca di successo e notorietà con poca voglia di sudarseli, inconsapevoli dei propri enormi limiti. O ti chiedono di dargli spazio o ti infamano perché non glielo dai. Ti scrivono e ti telefonano per ingozzarti della loro arte e se non rispondi dandogli enorme importanza pensano che sei un montato mentre tu magari in quel momento sei soltanto impegnato a sfamare la tua famiglia col tuo lavoro.
Ma a parte questi wannabe anche tra gli artisti italiani di un certo valore non c’è stata la collaborazione che avrebbe potuto esserci dal mio punto di vista. Per fare il coatto posso dirti che a me risulta più facile lavorare con un Ron English, che fa il suo capolavoro sapendosi anche arrangiare, e scambiarmi alla fine della collaborazione anche tanti abbracci e un dipinto con lui che lavorare con un italiano semisconosciuto che si sente stocazzo e che dovrei trattare da semidio solo perché lui disegna. Forse così sono stato più chiaro.

A.C. La tua prospettiva sull’underground degli anni Novanta, come hai vissuto il mondo in divenire della scena italiana e come ora a distanza di oltre un decennio ti appare, cosa cambieresti e cosa riporteresti indietro tenendo anche a mente e sottocchio l’attuale autoproduzione.
Beh, per quanto riguarda il metodo di lavoro di quegli anni se potessi tornare indietro da parte mia cambierei radicalmente l’approccio alla comunicazione. Man mano che noi realizzavamo pubblicazioni indipendenti, mostre ed eventi nei centri sociali di tutta Italia, oppure performance e raid notturni vari, avremmo dovuto testimoniare tutto con foto e testi da archiviare ordinatamente e da raccontare in modo chiaro alle future generazioni. In una parola, avremmo dovuto “storicizzarci” da subito.
Ti dico questo perché ritengo che noi siamo stati l’ultima generazione, quella che aveva dai venti ai trenta negli anni dai 90 ai 2000, a prendere come forte riferimento il passato. Pur negandoli o cercando di contaminarne l’eredità con altri linguaggi, siamo stati noi in un certo senso a storicizzare i nostri padri “alternativi”, siamo stati noi ad affermare il fumetto e l’arte visiva “diversi” degli anni 80. Ora per citarti solo il fumetto italiano, siamo stati noi a celebrare Pazienza come lui celebrava Moebius e Crumb, o come Crumb celebrava Wolverton, siamo stati noi a citare Mattioli, Liberatore o Scozzari, noi a non dimenticare Bonvi e Magnus, Tamburini, il nostro contemporaneo Gianluca/Bad Trip e molti altri. E così abbiamo fatto nell’arte visiva. Abbiamo voluto conservare fieri la nostra giovane intelligenza ed espressività che faticosamente tenevamo lontana dalle stronzate del “mainstream”, rappresentate all’epoca da una televisione e da media in genere che vedevamo benissimo in che stato di ebete e controllato appiattimento stavano conducendo la società.
Fino alla nostra generazione conoscere e studiare chi ti aveva preceduto nel tuo lavoro e confrontarti senza timore con lui è stata una delle modalità per trasmetterne la memoria e costruire così un percorso visivo lineare.
Ripeto, pur contraddicendo, negando o coglionandone il lavoro.
Siamo stati gli ultimi a tramandare nei nostri segni quelli loro, benché fossimo già fortemente influenzati da quell’individualismo crescente di cui ti ho parlato prima.
La generazione successiva, quella che ha avuto vent’anni nei primi anni 10 del duemila, a noi non ci ha filato proprio invece.
Ha guardato alle nostre autoproduzioni in tiratura limitata e faticosamente indipendenti e le ha confuse con quelle “mainstream”, come fossero frutti di una stessa pianta. Tra Lo Sfracellatore e una serie di Sky non c’era più da percepire differenze sostanziali per loro, come tra Ranxerox e Terminator.
Tutti uguali, tutti facilmente raggiungibili su internet. È cambiato il modo di cercare le cose, non più verticale, che più scavavi e più trovavi tesori, ma orizzontale, ovvero tutto messo sullo stesso piano.
Per questo in molti si sono sentiti i primi a fare qualcosa di nuovo e di diverso e a non dover dire grazie a nessuno, come i figli di una nuova era.
È in quegli anni che si è affermato il web, dunque per i nuovi arrivati la diffusione della carta e di tutti i contenuti underground che poteva aver veicolato fino a quel momento a livello nazionale ed internazionale non ha avuto alcun senso.
Per vedere il lavoro di un artista coreano non dovevi più prendere un aereo o scrivere a un editore in culo al mondo per farti spedire quel libro che avevi scoperto in quella fanzine trovata frugando chissà dove. Da quel momento in poi è bastato digitare il nome su un motore di ricerca, un gesto non molto lontano da quello di cambiare canale tv. Con la diffusione del web si è perduto quindi il senso di appartenenza ad una cultura visiva tramandata da gente come noi, ovvero una categoria di artisti che si riconoscevano con lentezza, grazie a lunghi viaggi e spostamenti reali, un lavoro di cui andare fieri. Tutto si è mescolato a livello globale e magari, copiando il modo di scrivere da un francese, quello di disegnare i volti da un artista giapponese, quello di disegnare le mani da artista brasiliano e di gestire il proprio blog da uno statunitense ecco che il giovane artista si sente oggi un individuo unico nell’universo.
È amico di facebook di tutti questi citati, ma è anche solo e sperduto nel promuovere il proprio lavoro nell’oceano del web e nell’affermarlo come originale, tra milioni di altri lavori che gli sembrano a volte un po’ simili al suo o a quelli di quel tizio a cui ha copiato quel disegno e di cui non si ricorda più nemmeno il nickname.
Non sto esprimendo giudizi, attenzione, non lo farei mai perché ritengo un privilegio enorme poter attingere oggi ad una fonte inesauribile di informazioni, immagini, suoni ed altro come è il web, sto però cercando di fare la fotografia al cambiamento dello stato delle cose, trovando forse una delle ragioni per cui le nostre prime produzioni siano inciampate in un astratto passaggio di epoche, divenendo espressioni del paleolitico in soli 5 anni. È come se noi fossimo vissuti millenni: quello che facevamo all’inizio è invisibile, come reperti fossili del lontano passato, e ciò che facciamo ora è considerato pari a quello che fa un ragazzino di vent’anni.
Cosa penso bisognerebbe fare ora?
Essere consapevoli della grande fortuna che abbiamo vissuto condividendo quel senso di appartenenza “fisica” ed etica ad una cultura che ci tiene assieme e cercare di trasmettere quell’esperienza agli artisti più giovani, usando incontri, web e progetti per raccontandogliela. Alle mie lezioni allo IED di Roma mi è capitato più di una volta di mostrare alcuni miei lavori e puntualmente dei ragazzi mi dicono che gli piacciono quelli più in stile “street art” che gli ricordano alcuni murales di artisti che lavorano da 4 o 5 anni a questa parte. Io gli dico che quei miei lavori hanno 15 anni e allora mi guardano con sguardi interrogativi.
È là che inizio a parlargli della storia dell’arte e dell’editoria underground, a partire dai libelli del 1300 di John Wycliffe fino al Village Voice, a mostrargli quanto Dadaismo c’è nel Punk, quanto MAD e quanto fumetto porno iconoclasta delle bibbie di Tijuana ci sono in Crumb e quanto Crumb e quanto Moebius ci sono in Andrea Pazienza, quanto Blek le rat c’è in Banksy, quanto Jim Flora c’è nei Caroselli italiani degli anni 60 o nei dipinti di Tim Biskup, quanto Kentridge c’è nei film in animazione di Blu e quanto Oleg Kulik c’è nei Voina e quindi nelle Pussy Riot, e via così. E loro prima mi vanno in corto circuito, ma poi si appropriano dell’idea che la cultura è viva, divertente e cresce su dei percorsi spaziali e temporali.
In questo senso credo che questo lavoro di documentazione di Znort! su quel periodo dimenticato sia bello e fondamentale per aiutare a mettere un po’ di ordine nelle teste di chi vorrà informarsi.
A.C. Il passaggio da Katzyvari a dirigere Tank Girl Magazine, cosa dello spirito della prima è persistito nella seconda creatura?
Tank Girl Magazine non era una produzione underground come le precedenti e con questo io dovevo necessariamente farci i conti. Era una rivista pubblicata dall’editore de Il Corvo, X-Files e di altri fumetti molto noti, e si rivolgeva a un pubblico preciso e anche a questo ammetto che pensai, mentre facendo Katzyvari ce ne fregavamo totalmente del lettore come delle possibili denunce legali.
In Tank cercai perciò di mantenere lo spirito underground e satirico di Katz ma sellandolo sulla schiena di una giovane generazione, quella che si ammazzava di noia a fianco ai propri simili tutti tv-discoteca-oratorio-e-calcetto nell’Italia dell’onnipresente Provincia italiana.
Gli argomenti, i fumetti, i film e gli artisti di cui si parlava o di cui si pubblicavano i lavori erano ancora quelli del mondo underground di Katz, dello HIU ed dei centri sociali, ma il contesto era quello ufficiale dell’edicola. Questo contesto non volevo mi facesse perdere il linguaggio originale del mio modo grottesco e greve di fare cultura underground. Volevo che sul magazine intervistassimo anche John Waters, Beck, la gallerista di Basquiat, Henry Rollins, gli Offspring, Brett Easton Ellis e tantissimi altri, ma senza perdere l’occasione di poterli prendere per il culo se era il caso di farlo.
Trovai uno stratagemma subdolo: mostrai all’editore il linguaggio di riviste come Cioè e gli spiegai che anche Tank Girl Mag avrebbe dovuto avere un proprio linguaggio. Cioè si rivolgeva alle ragazzine di quindici e aveva dunque quel tono tutto bacini, effusioni e varia mitomania? Bene, noi ci rivolgevamo alle tantissime punkettine diciottenni quindi avremmo dovuto inventare nuove parolacce, parlare in modo disinvolto di pompini e mestruo, pubblicare tanti fumetti “trasgressivi” e smontare miti.
Ci cascò, malgrado il pubblico di cui parlavo in termini di grandi numeri appunto non esisteva perché non tutti i diciottenni erano ovviamente così. Ma io sapevo di poter parlare a molti altri che avrebbero colto il gioco e non sbagliai poi molto perché comunque Tank Girl le sue 6000-9000 copie le vendeva perché il suo pubblico era trasversale e andava dall’interessato alla musica e ai fenomeni di cui si trattava al lettore di fumetti di culto. È su quelle pagine infatti che oltre a Tank Girl (sia quella ultima di Hewlett/Milligan che la prima di Hewlett/Martin) pubblicavamo Skin di Milligan/McCarthy, Al Columbia, Julie Doucet, Judge Dredd, Dave McKean e Grant Morrison, i fumetti Vertigo e i vari autori italiani prima visti solo nell’underground.
A.C. Esauritasi l’esperienza di Tank Girl Magazine, cosa infine ritieni sia rimasto di quello spirito che funse da propellente al tuo lavoro dagli anni Novanta fino a portarti a concertare l’esperienza IUK (Italian Underground Komics) su XL di Repubblica?
La prima parte dell’esperienza di Tank Girl Magazine si concluse il 15 novembre 1996 con un grande Funeral Party a Roma, poi nacque nel ’97 Tank Magazine che durò 5 numeri e nell’estate dello stesso anno tutto finì. Dal 1998 al 2005 mi concentrai di più sulla produzione dei miei dipinti realizzando sempre meno fumetti.
Io però sono sempre lo stesso Diavù, probabilmente cresce con me la mia visione di un mondo migliore possibile perciò i miei interventi sono più visibili, responsabili e concreti man mano che passano gli anni – e metto tra questi quelli di arte urbana che sono sempre di più – ma rimango d’altra parte anche quell’inguaribile agitatore irresponsabile che se la ride dell’Apocalisse pur essendoci dentro con tutte le scarpe.
Nel 2002 iniziai a pubblicare i ritratti di musicisti ogni settimana su Musica di Repubblica, e fu là nella redazione del settimanale che arrivò nel 2004 Luca Valtorta e con lui la proposta di intercettare quel gruppo di autori coi quali avevo collaborato in passato nelle produzioni a fumetti underground. All’inizio non avevo alcuna intenzione di rimettermi chino sui fumetti ma poi anche per il piacere di ritrovarsi ho tirato su l’esperienza IUK, ideata con Sandro Staffa/AlePOP, che ha visto lavorare assieme Alberto Corradi, Massimo Giacon, Francesca Ghermandi, Maicol e Mirco, Tuono Pettinato, Squaz, Ratigher e nel periodo strisce Pino Creanza, Ale Giorgini, a volte Dr. Pira e Baronciani e un apparizione di Davide Toffolo. Un progetto apparentemente da fumetto popolare classico, dove al centro non c’era l’autore ma il personaggio, ma in realtà in grado di affrontare tematiche sociali contemporanee, come la riforma scolastica della Gelmini, la camorra a Napoli, il ritorno dell’hip hop, la condizione ancora spesso retrograda della figura femminile in Italia, i leghisti o i rom. Io sono stato tra gli autori che si sono divertiti di più a mettere in ridicolo queste tematiche serie, proprio per la mia iconoclastia se vuoi, infatti sono stato anche il più censurato dalla redazione di XL.
All’esperienza fumetto ho associato inevitabilmente anche quella artistica e quindi IUK si è trasformato in breve da acronimo di Italian Undergound Komics in International Urban Kulture, e quindi anche nell’occasione per portare in Italia nelle fiere d’arte e di comics e nei festival musicali con XL e con Mondopop noti artisti internazionali come Buff Monster, Gary Baseman, Jon Burgerman, Jim Avignon, Jeremyville e molti altri con cui abbiamo collaborato. Chiuso XL dell’esperienza IUK è rimasto assieme il gruppo più legato, ovvero Massimo Giacon, Ale Giorgini, tu e io che abbiamo costituito il progetto QU4TTRO.
Ma quello spirito di collaborazione per me è sempre lo stesso che mi spinge ora a chiamare artisti dall’Italia e da tutto il mondo per il mio progetto Museo di Urban Art di Roma MURo, piuttosto che dipingere in strada e in studio da solo per i cavoli miei.