ChannelDraw
Gianluca Costantini
Projects

INTERVISTA A ALE POP

H.I.U Happening di fumetti e illustrazione underground 1993 | 2003

G.C. L’HIU è iniziato nel 1993, tu cosa facevi in quel periodo? Quando ti sei imbattuto per la prima volta in questo festival.
Ho iniziato a frequentare il “bel” mondo del fumetto nel 1985, pubblicando tre storie su Alter Alter (Ed. Rizzoli). Nel 1986 la rivista ha chiuso. Dal 1987 al 1991 mi ha dato asilo Schizzo, la pubblicazione del Centro Fumetto Pazienza. Nel 1991 ho scritto delle storie per MondoMongo, un progetto del duo Brolli – Palumbo. Nel 1992 ho collaborato a Silly Tragedies, inserto curato da Giuseppe Palumbo per Frigidaire.
Uno sgorbio mio è addirittura diventato una copertina del mensile.
Dal 1985 al 1993 a Vicenza, dove abitavo, ho organizzato il Garage Visivo: un laboratorio creativo di fumetto ed illustrazione. Per campare svolgevo il lavoro di graphic designer, come ho sempre fatto.
Nel 1993 Teatro mi telefona, invitandomi alla prima edizione di un fantomatico Happening Underground. In un sabato pomeriggio d’ottobre arrivo a Milano e raggiungo il quartiere dov’é ubicato lo spazio che ospita l’evento. Trovo il Centro Sociale Garibaldi ed entro. In un salone vedo solo anziani che giocano a carte. Penso: “ne ha di rughe, l’andergraunn!”.
Chiedo informazioni sulla mostra e dopo un’ora e mezza, tra rimpalli e aneddoti sulla vita del quartiere, finalmente emerge la verità. Mi dicono: “c’è un altro posto con il medesimo nome. Tu stai in quello istituzionale, gestito dal comitato di quartiere, l’altro è “dei sciupà”.
Così lo definiscono, gli allegri e cordiali vecchietti. Saluto e raggiungo il luogo.
Presenzio per poco. Giusto il tempo di scambiare due parole con Teatro e riparto, perché ho l’ultimo treno intorno alle 19.30.
Da quel momento è iniziata la mia collaborazione con l’HIU (che ancora non si chiamava così, perché l’acronimo l’avrei inventato io qualche anno dopo).

G.C. Dal 2000 sei entrato proprio nell’organizzazione del Festival, si può dire per tutte le edizioni al C.S. Leoncavallo. Perché sei entrato in gioco?
In realtà ho iniziato la mia collaborazione nel 1994. L’ho fatto perché ritenevo che un patrimonio culturale, come quello che esisteva nei sottoscala nazionali, meritasse una maggiore visibilità. Mi piaceva l’idea di mescolare gli stili e le arti.
L’asfittico mondo del fumetto italiano mi aveva stancato sin dal mio primo approccio.
I suoi frequentatori (autori, editori, pubblico, critici) li ho sempre trovati monotoni, culturalmente chiusi e conservatori.
L’Happening, invece, era basato sulla contaminazione. I fumetti, per fortuna, sono sempre stati una piccola parte del menù.
Io sono in primis un grafico e ho sempre nutrito interesse per la comunicazione visiva nella sua estensione globale. Le pippe su Pippo & Co. non hanno mai suscitato in me grandi emozioni.
Volevo vedere e conoscere più modalità espressive.
Questo è il motivo basilare per cui iniziai a collaborare.
Anno dopo anno le “diverse visioni”, come le ho sempre chiamate, si sono ampliate.

G.C. Quanto era importante l’interazione tra autori stranieri e quelli italiani? E’ servito? Oppure ognuno non guardava oltre il sugo banchetto?
Nonostante la buona volontà, espressa da chi organizzava, non ho mai visto una grande predisposizione ad interazioni tra autori. Ognuno custodiva il proprio spazio. Alcuni intrecci sono nati, ma non sono mai divenuti momenti fondamentali e ricorrenti dell’iniziativa. Per un po’, ci ho provato. Poi ho desistito. Soprattutto gli americani li ho visti riluttanti all’interscambio paritario. Anche i più alternativi, restavano sempre moderatamente sciovinisti. Per loro eri un “naif”. Datosi che hanno la primogenitura del rock (da cui si sono estese tutte le culture alternative), pensano che l’intero globo si debba adattare al loro stile di pensiero e vita. Sono dei colonialisti, incapaci di uscire mentalmente dai confini del proprio paese. Non sono antiamericano per pregiudizio, ma la realtà degli incontri con chi presenziava all’HIU si è rivelata spesso questa. Li abbiamo sempre trattati da rockstar (e su questo io ero in disaccordo profondo): loro si gongolavano, mangiavano e tracannavano a gò-gò, facevano i simpaticoni, ma mai una volta hanno proposto un gemellaggio. Con qualche europeo (sloveni, serbi, francesi, svizzeri) è andata lievemente meglio.

G.C. Tu cosa facevi esattamente per il festival?
Coadiuvavo Teatro nella ricerca di artisti o materiali da esporre e realizzavo una parte della comunicazione visiva. Quando presenziavo allestivo alcune mostre del’HIU. All’interno della programmazione mi occupavo della sezione meno orientata verso l’underground storico (quello di Crumb, Williams, Griffin, Rodriguez, etc). Cercavo di immettere sprazzi di contemporaneità: grafica, fumetto, illustrazione, videoclip, web produzioni, contaminazioni con la musica elettronica, interazioni con le arti pittoriche. Ognuno si dedicava alla proprie “perversioni”, perché questa era la filosofia dello HIU. Al di fuori di quell’evento lo facevo già assieme a Niccolò Gros Pietro (ideatore della rivista torinese Interzona), con iniziative siglate AlterVOX. Questa, però, è un’altra storia che si è sviluppata parallelamente in quegli anni. Varrebbe la pena di aprire un capitolo a parte.

G.C. Il Centro sociale, come luogo, è sempre stato l’epicentro dell’HIU, perchè?
I centri sociali, in quel periodo, erano luoghi pulsanti. Una risposta attiva concreta alla sonnolenza sociale che aveva caratterizzato gli anni ’80. L’eroina, tra il 1980 e il 1990, aveva falcidiato un’ampia fascia di una generazione. Quasi nessuno ne parla. Chi ha vissuto da adolescente e da giovane under 30 gli anni ’80 ha sperimentato per primo i danni del liberismo, la precarietà lavorativa, il dominio del pensiero unico, l’intaccamento del welfare, la deriva della politica verso la lobby banditesca. Non sono novità di oggi. Nei ’90 la breve apparizione della Pantera (il più fugace movimento politico che la storia italiana abbia mai visto) aveva aperto dei piccoli squarci nel silenzio dominante. I centri sociali, in modalità TAZ (zona temporaneamente autonoma), si erano diffusi velocemente in ogni parte d’Italia. Con l’inasprirsi del militaristo statale, dovuto alla prima guerra del Golfo, si è ricomposta un’area critica. Dopo anni, di Drive In/Dallas/Yuppies e intellettuali mezze tacche di sinistra saltati sul carrozzone televisivo di Berlusconi, si creò una rete di spazi indipendenti. L’HIU poteva nascere solo in luoghi così. La cultura ufficiale, soprattutto quella di sinistra, ci snobbava e noi ci ritrovammo a creare/organizzare/diffondere controcultura nei centri sociali.

G.C. Come funzionava la tua relazione con Marco Teatro?
La relazione con Teatro, individuo di poche parole, era spartana. Ridotto conciliabolo progettuale, divisione delle competenze, qualche aggiornamento telefonico organizzativo prima dell’evento, messa in posa dell’HIU, arrivederci finale all’edizione successiva. Il succo (che condivido pienamente) era: zero pippe e realismo.

G.C. L’HIU era una esperienza politica oppure solo estetica?
L’HIU era un progetto di controcultura, un’idea di estetica diversa, un momento di altra comunicazione, un’occasione per esprimere idee politiche in maniera creativa. Io ho sempre messo insieme queste caratteristiche. Alcuni hanno utilizzato l’iniziativa per meri interessi egotici. Altri perché nessuno dei piani alti li considerava (soprattutto i fumettisti), infatti appena hanno trovato un padrone da servire sono scomparsi. Altri ancora proponevano idee sul famoso “altro mondo possibile”. Ognuno a modo proprio sceglieva la vetrina dell’HIU per fare un po’ come gli pareva. Comunque per i militonti eravamo troppo frivoli; per i frivoli troppo impegnati; per i bottegai alternativi un ghetto poco remunerativo; per il gotha del fumetto degli intellettuali incomprensibili; per gli intellettuali dei dispensatori di sottocultura; per i punkabbestia dei borghesi schifosi. Potrei andare avanti per ore. C’era sempre qualcuno che aveva da ridire. Personalmente, nelle storie di PopyDak, sprofondato in poltrona che fa zapping e vive avvenDURE psicheDelicate, ho narrato della politica con le sue evoluzioni/involuzioni sin dal 1992. L’ho fatto con disincanto, autoironia, iconoclastia e sempre con un piglio ipercritico. Anche nei confronti degli antagonisti.

G.C. La tua esperienza è passata anche da Alter, sei stato vicino “anagraficamente” al gruppo Valvoline che in questo periodo si sta storicizzando nel fumetto grazie all’operato e all’insistenza di Igort, Brolli dcc… Perché il fumetto italiano degli anni ’90 non è riuscito ad essere così unito e coeso e si è disperso in individui singoli?
Ho incrociato i Valvoloidi, per qualche attimo nel 1986, dato che pubblicavo in Alter Alter, però non ci sono stati contatti. Ricordo alcune lettere piene di proteste che arrivavano al giornale. Erano quelle dei lettori che volevano i fumetti comprensibili, senza segni a spigoli e testi secondo loro ermetici. In realtà Valvoline era uno stupendo insieme di narrazione, ricerca, sperimentazione grafica e il solito pubblico fumetTARDO lo osteggiava. Se non fossero mai esistiti degli audaci sperimentatori il fumetto sarebbe ancora quello di Bibì e Bibò. Nessuno lo dice quasi mai. Per quanto riguarda il fumetto degli anni ’90, credo che sia mancata un’unità progettuale. L’individualismo ha vinto sul fare gruppo o creare circuiti distributivi, editoriali ed espositivi. Nessuno ha pensato di storicizzare le iniziative con video e foto. Tra il 1996 e il 1998, a Lucca Comics con il progetto Padiglione AlterVOX ci si provò. I più ostici furono gli autori di fumetti supereroistici indipendenti, che dietro le spalle ci riversarono critiche astiose e sprezzanti. Si sprecò la solita definzione “ghetto per intellettuali illeggibili”. In ogni caso per tre edizioni, con la collaborazione di Michele Ginevra del Centro Fumetto A. Pazienza, io e Niccolò facemmo vedere al pubblico della sagra moritura lucchese un po’ di cosucce atipiche. Il lavoro di Zograf, di Gipi, di Mano, di Dast, di Zattera, di BadTrip, di Giacon, di Stefano Tamburini (grazie allo studioso Michele Mordente), di Costantini, di Ribichini, di Squaz. Ospitammo decine di fanzinari cacciati dai caramba dai giardinetti del Palasport e minacciati di denuncia per vendita illegale. Realizzammo: mostre di grafica, sul fumetto underground USA ed europeo, sugli incroci tra cartoons e pittura pop. Demmo spazio alle prime live performance di autori. Inventai il Caffè Mentale, un’area in cui il pubblico si poteva sedere e leggere gli albi messi in vendita negli stand dello spazio, ascoltare dibattiti, socializzare. Mettemmo la musica in sottofondo per realizzare un’area più ospitale. Ci si provò. Dopo tre edizioni riportammo tutto, con somma gioia, nei nostri ghetti centro socialisti. Negli ultimi tempi un sacco di autori, che noi presentammo quando erano emeriti sconosciuti, vengono premiati. Forse ci avevamo visto lungo. Una serie di concause non hanno permesso di costruire un progetto più coeso.

G.C. Frigidaire, Valvoline e altre esperienze importanti degli anni ’80 sono state un peso per chi è venuto dopo?
La retorica costruita attorno alla figura di Andrea Pazienza e a Frigidaire per me è stata insopportabile. Non si andava oltre alla litania “ehhh, dopo Paz, dopo Frigo, nulla è come prima”. Un totale blocco culturale paralizzato in una bolla temporale nostalgica. Soprattutto a sinistra, in primis Il Manifesto, non si andava oltre il rassicurante passatismo. Non si accorgevano che ciò che si proponeva nel buio dei nostri sottoscala aveva le medesime radici e forse un’incazzatura maggiore. Valvoline ha avuto un decorso diverso. Infastidiva quando era attiva per i motivi già accennati in una risposta precedente. Quando scomparve nessuno del settore la considerò più. Un vero peccato, perché Valvoline in fatto di ricerca visiva batteva Frigidaire di molto. Anche perché quest’ultima, dopo due/tre anni di fulgore, cadde in una sorta di coma creativo. Si salvava solo Mattioli, che alla lunga è risultato il più attuale anche 30 anni dopo. Il peggio del post Frigidaire furono le decine di emuli che scopiazzavano malissimo Pazienza. Ogni volta che aprivano i loro book per mostrarceli arrivava una stilettata alle pupille. Il tragico è che ‘sta nenia dei bei tempi andati continua. Anch’io ho amato molto quegli autori, ma dopo di loro la vita è proseguita. Questo è proprio un paese che vive di nostalgia. Anche se indossi il chiodo e urli “fucktutto”, poi a letto per addormentarti sereno vuoi l’orsacchiotto che accarezzavi da piccolo.

H.U. 1° edizione Tre giorni di comunic-azione e diffusione di culture alternative. 1-2-3 ottobre 1993 C.so Garibaldi, Milano Foto di El Vandalo

G.C. Francesca Alinovi un po’ di anni prima aveva cercato di unire la street art con il fumetto e l’illustrazione, ma non ebbe seguito. Forse il seguito fu proprio l’HIU. Conoscevi la sua esperienza?
Sì, conoscevo le attività della Alinovi. Rispetto ai suoi tentativi, l’HIU cercava commistioni tra i generi in un periodo in cui i graffitari (perché allora si chiamavano così) si stavano diffondendo in modo massiccio. Il vero “inciucio” si è realizzato tra il 2000 e il 2005, quando una nuova generazione di writers ha dato la scalata al mercato. Quella che io definisco “Wall Street Art”. Sono apparsi decine di mercenari che hanno distrutto in poco tempo lo spirito genuino di una cultura visiva trentennale. Ingordi di successo, avidi di denaro. Disposti a servire e a riverire galleristi avvoltoi e critici modaioli, per due grammi di celebrità. Se fosse viva, l’Alinovi, forse non ne sarebbe molto contenta. Io avevo captato questa deriva quando l’HIU, nel 2002, diede ampio spazio al writing nella zona downtown del Leo. Tanti gasati, supponenti, egotici, rampanti, non li vedevo dal periodo dei creativi yuppies che ahimé ho incrociato per motivi professionali negli anni ’80. Non ho approfondito alcun contatto con loro e ne sono felice.

G.C. Tu sei stato anche il grafico per molti eventi dell’HIU, come era considerata in questo ambiente? Sia nei Centri Sociali che nell’editoria underground italiana.
La grafica nell’underground è sempre rimasta ancorata alla psichedelica anni ’60 e al collage post punk degli ultimi anni ’70. Non si è mai distaccata da lì ed evoluta. Ad esempio tutto il fermento visivo espresso dai grafici della scena rave o da artisti come l’inglese Neville Brody (inventore di The Face e creatore di copertine per gruppi new wave) e l’americano David Carson (grafico e art director di Ray Gun e di altre riviste), non è mai stato assimilato. PierMario Ciani, geniale multi visionario friulano, scomparso prematuramente nel 2006, ha saputo rinnovare l’immaginario grafico proveniente dai sotterranei. Un altro agitatore culturale, che ha sperimentato, è il milanese Giacomo Spazio (fondatore delle etichette VoxPop, Cane Andaluso, City Living e ideatore della rivista Vinile, artista e curatore di mostre). E’ sempre mancata una volontà di percorrere strade nuove. Quando progettavo poster e flyer (per le prime edizioni dell’HIU) mi sono spesso autocensurato, creando un’iconografia ibrida e che a distanza di anni non mi piace per nulla. Preferisco i progetti realizzati nelle edizioni 2000/2001/2002. Per quanto concerne centri sociali e comunicazione visiva, il gusto retro militonto anni ’70 ha sempre impedito per lungo tempo qualsiasi innovazione. Nemmeno l’esempio di Gianni Sassi (grafico/fotografo/art director della Cramps, l’etichetta che produsse i primi dischi di Area/Finardi/Camerini a metà degli anni ’70) e lo stile più postpunk di Mario Convertino (suo il graphic design della rivista Gong e della trasmissione tv Mister Fantasy) hanno intaccato la seriosa comunicazione centro socialista. Qualcosa è cambiato con l’avvento della grafica digitale (Torazine, Inguine, Crack! e altre pubblicazioni che ora non ricordo).

H.U. 1° edizione Tre giorni di comunic-azione e diffusione di culture alternative. 1-2-3 ottobre 1993 C.so Garibaldi, Milano Foto di El Vandalo

G.C. Bad Trip è stato un’autore importante per l’immaginario underground italiano, durante la sua vita passo anche dal mondo dell’Arte Contemporanea, per questo fu molto criticato. Bad Trip organizzò mostre, riviste ecc… dopo la sua morte è stato completamente dimenticato. In altri paesi, come gli Stati Uniti sarebbe al Moma, nei libri di scuola. Perché in Italia non succede?
Perché siamo ancorati all’idea che il disegno deve essere figurativo. In questo paese i segni anomali non sono sopportati. Inoltre, per i “dotti” che dirigono gran parte dei musei nazionali, Bad Trip resterà un fumettaro: ovvero un non artista. Bisogna tirare i righi dritti.

G.C. Sarebbe possibile l’HIU adesso?
Rifarlo sarebbe un’operazione puramente nostalgica. L’HIU va storicizzato, ma non deve diventare l’ennesima sagra del “che tempi quelli là”. Risulterebbe un evento artificioso. Sarebbe meglio una mostra ben costruita e contestualizzata. Ai tempi in cui collaboravo ad XL, ogni tanto proponevo l’idea. Non è mai stata presa in considerazione e nemmeno da altri a cui ne ho accennato. In ogni caso c’è il Crack! e alcuni festival di monotonia fumettistica, con spocchia incorporata, realizzati dai ‘ggiovani ragionieri della “graphic novel”. Si danno da fare anche i vintage neofreak, che disegnano come fossimo rimasti nella Summer Love californiana e i naftalina punk nostalgici del ’77 dadàbulognese. Poi esiste il Komikazen. Anche se ironizzo sempre con te Gianluca, definendolo un festival in cui non si ride mai. Di occasioni ce ne sono a sufficienza.

G.C. L’HIU avrà lasciato in te dei bei ricordi, ma anche brutti, credo. Ci vuoi dire qualcosa?
Il tempo sfuma ogni emozione vissuta e restano vaghe rimembranze sfuocate. Esauritesi le motivazioni pratiche, che ci tenevano in contatto, non ho più sentito nessuno. Qualche volta ho cercato le persone per sapere come gli proseguiva la vita. Quando ho visto che questo interesse c’era solo da parte mia, ho smesso. Siamo stati compagni di classe, terminata la squola undergrunt : buonanotte ai sognatori e bravi tutti. Ora tocca ad altri dimostrare che un diverso modo d’immaginare potrebbe essere possibile. Io sto sul divano a grattarmi gli zebedei.

Znort

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