H.I.U Happening di fumetti e illustrazione underground 1993 | 2003
G.C. Cominciamo proprio dall’inizio…
Come ti è venuto in mente di fare l’HIU, parliamo del 1994 giusto?
Stiamo parlando del 1992 circa, ma l’evento si è concretizzato nel 1993. A Milano c’era un ambiente underground molto vasto e ricco di artisti di ogni disciplina: i writing era alle stelle e la scena hip hop era definitivamente dominante rispetto al Punk che aveva tenuto banco per tutto il decennio precedente. Parallelamente c’erano anche grafici, disegnatori, bikers kustomizzatori di moto e macchine, tatuatori e fumettisti… ; in genere non si mescolavano tra loro, ma esistevano dei link nascosti di vicendevoli influenze inaspettate e spesso celate. HIU è stato un evento più simile ad un’opera situazionista che ad una fiera tematica: nasce così nel 1993, con l’intento di creare un punto di confronto tra tutte le micro realtà presenti in Italia che si muovevano nell’underground del fumetto, delle arti grafiche e figurative, di ricerca e contenuto che non fosse solo commerciale. Lo scopo essenziale era la contaminazione e lo sviluppò della conoscenza/coscienza, di sé e dell’importanza enorme che rappresentavano tutti i piccoli protagonisti della creatività libera.
G.C. Il tuo modo di organizzare l’evento e le tue motivazioni erano in sintonia con quello che succedeva nelle piazze milanesi? Mi ricordo del corteo dell’opposizione sociale a Milano del 10 settembre nel 1994, questo tipo di attività si rifletteva nell’HIU? Erano esperienze condivise?
Certo che c’era sintonia, ricordo bene quel giorno e tutti i drammi connessi. Ovviamente non eravamo sempre d’accordo con tutti i gruppi e la modalità proposte. Noi che avevamo creato l’evento puntavamo a diffondere cultura e produrre iniziative che non fossero solo delle dispersive lotte di piazza. Inoltre l’ambiente artistico non era certo omologato dal punto di vista politico.
G.C. Il Centro sociale, come luogo, è sempre stato l’epicentro dell’HIU, perchè?
Nulla è avvenuto per caso: solo negli ambienti dei centri sociali di quegli anni poteva prendere vita questo tipo di iniziativa, essendo gli unici posti in grado di ospitare un evento non commerciale senza comprometterlo. Inoltre occorreva un luogo fisico che non avesse costi proibitivi.
G.C. Come funzionava la relazione con il collettivo del centro sociale? Facevi le assemblee con loro?
Cosa condividevi? Capivano quello che gli proponevi?
Se è per questo anche quando ho fatto il primo HU al centro Garibaldi ho dovuto fare infinite riunioni per spiegare i fumetti e le illustrazioni, non capivano minimamente di cosa parlavo, c’è voluto molto tempo e una pazienza infinita. Ricordo ancora delle serate spese a cercare di spiegare alle femministe che tutti quei cazzi disegnati nei fumetti underground non erano sinonimo di machismo, ma il contrario. É stato un lavoro duro all’inizio. Al Leoncavallo è stato anche peggio, se mi hanno dato retta è solo perchè conoscevo tutti e frequentavo il Leo già dalla sede storica di via Leoncavallo, avevo già fatto in passato molte iniziative culturali, loro ragionavano solo di politica. La mia proposta gli appariva insignificante, era presa sotto gamba, ma a me interessava l’obbiettivo, sapevo che non mi capivano, solo di fronte ai fatti avrebbero compreso il lavoro proposto.
G.C. L’HIU era una esperienza anche politica oppure solo estetica?
Tutti i microgruppi che producevano riviste, gli artisti e gli autori, agivano nei singoli ambiti urbani o territoriali ristretti, senza conoscere o quasi l’esistenza dei loro antagonisti a livello nazionale.
La prima cosa che ho capito, man mano che contattavo tutte queste piccole realtà italiane, era la mancanza di informazione quasi assoluta, sui percorsi e l’evoluzione dei movimenti artistici che li avevano preceduti, nel mondo e nella storia contemporanea. Si stava consumando anche la memoria dei predecessori storici italiani, nonostante avessero lasciato una traccia tangibile riconosciuta anche in altri paesi: (Paz, Tamburini, Liberatore, Guarnaccia, Frigidaire, Cannibale, il Male ecc, ecc.). Io parto da questo presupposto: tutto è politica, anche l’aria che respiriamo, niente si può scindere da essa, nemmeno un fumetto per bambini. Bisogna rendersi conto di questo dato di fatto se si vuole capire qualcosa della propria vita.
G.C. In effetti il fumetto dopo le esperienze di Frigidaire e il Male prese vie più estetiche, pensiamo al Gruppo Valvoline e l’ambiente bolognese… Però ci furono anche altri esempi come per esempio la rivista Nova Express diretta da Luigi Bernardi, lì non si faceva solo estetica, però non colpì la gente come le riviste precedenti, quali furono i motivi? Cosa era cambiato?
Era cambiato tutto. Il pensiero della gente, il senso del mondo e della vita, Il “prima” era direttamente collegato a filo diretto all’incredibile scena americana e nord europea. Poi in Italia quella generazione è stata spazzata via dall’eroina; quelli che avevano qualche anno più di me sono morti quasi tutti.Le nuove generazioni avevano nel DNA i palinsesti Mediaset, ormai il distacco era siderale.
G.C. Come ti organizzavi? Facevi tutto da solo? Decidevi chi contattare? Avevi solo contatti diretti con i disegnatori oppure anche con case editrici ufficiali?
All’inizio nulla di ufficiale, non c’era nessuna casa editrice ufficiale che avesse veramente a che fare con noi a parte casi isolati come “Stampa Alternativa”; non occorreva, eravamo pochissimi ad avere un’idea complessiva degli artisti underground storici e contemporanei.

G.C. Quindi per te c’era anche una assenza da parte degli studiosi del fumetto?
Esisteva una cultura underground italiana?
Certo, c’erano sì e no una dozzina di esperti in tutta Italia Li conosco tutti uno per uno! Ma in tanti hanno partecipato fin dall’inizio: il gruppo che ruotava intorno a Edizioni Topolìn era a Milano, tutti argentini, anche José Muñoz abitava nei paraggi e fu coinvolto, poi c’era Matteo Guarnaccia, gli altri del gruppo erano più che altro appassionati e collezionisti.
G.C. Francesca Alinovi un po’ di anni prima aveva cercato di unire la Street Art con il fumetto e l’illustrazione, ma non ebbe seguito. Forse il seguito fu proprio l’HIU. Conoscevi la sua esperienza?
No, non conoscevo la sua esperienza.
G.C. Ti rifacevi a qualche esperienza precedente?
No, prima di allora non c’era mai stato un evento simile, ne qui né in altri paesi.
G.C. In quegli anni il fumetto non se la passava molto bene, il grande periodo degli anni ’80 era finito, tu venivi dal mondo della Street Art, l’immaginario era lo stesso?
Sinceramente non ero molto interessato al mondo del fumetto tradizionale, mi bastava il mondo underground che era già enormemente ricco di proposte e autori eccezionali.c’erano contaminazioni vaste tra il writing e il fumetto: primo tra tutti Vaughn Bodè, completamente sconosciuto tra i fumettisti in Italia, ma non tra i writers.
G.C. Vaughn Bodè fu un artista che attraversò tutte queste arti con il suo lavoro. Pensi che un artista underground debba affrontare più tecniche? Uscire dallo studio per lavorare sui muri è importante per questo tipo di artisti?
Non è una questione di quello che “bisogna fare”, ma quello che accade se il tuo lavoro è recepito: Bodè non ha mai fatto graffiti, però ha influenzato il writing più di ogni altro artista. La musica influenzava i fumettisti, che a loro volta disegnavano copertine di dischi e stimolavano i musicisti, i bikers, i tatuatori ecc. fino ad arrivare a fenomeni insospettabili. Non è necessario che un artista si cimenti in tutte le discipline per influenzarle o per essere Underground. E’ l’ambiente che coglie e matura le cose che sanno parlare.
C. C. Gli anni ’90 per il circuito dei centri sociali furono i più proficui per il loro impatto culturale nel nostro paese. La Pantera generò il fenomeno delle Posse, cui seguì Sud di Salvatores al cinema, la scena hardcore DIY aveva finalmente un circuito di posti dove suonare e distribuirsi, il Forte Prenestino con “Conflitto” degli Assalti Frontali tentò di insinuarsi con l’autoproduzione nel mercato discografico. E nei centri sociali si sviluppò e circolò HIU. Ma vederlo raccontato così, sembra fossero due fenomeni diversi, su pianeti distanti. Concordi con questa impressione? E perchè, secondo te, questa differenza di percezione, oggi che a anni di distanza possiamo vedere che parliamo di fenomeno contemporanei e paralleli?
Il circuito in cui è maturato HIU era esattamente lo stesso, e anche tanti personaggi che lo hanno fatto vivere facevano parte integrante e consolidata degli ambienti dei centri sociali, a partire dal sottoscritto; non è che mi sono presentato di punto in bianco in un centro sociale e ho presentato un progetto di fumetti, erano già quindici anni che frequentavo e letteralmente vivevo nei centri sociali. Tutto il gruppo milanese fondatore del HU aveva esperienze dirette con la pantera e le posse; e pure il forte Prenestino era la mia “casa” romana. Avevo ben presente il momento storico, i centri sociali uscivano finalmente da decenni di ghetto e raggiungevano le masse; con le mille contraddizioni, fatiche e paure, vedevo allargarsi a dismisura un ambiente che solo pochi anni prima era quasi un mondo a parte: negli anni “80 conoscevo praticamente tutti i collettivi e i personaggi che gestivano i centri in Italia! Ci conoscevamo tutti da quanto eravamo pochi, si girava tutto il paese, per un concerto o una manifestazione e incontravo sempre gli stessi amici.
Tutto è cominciato a cambiare nel giro di pochissimo tempo.

G.C. Parliamo della prima edizione, chi furono gli invitati? Come funzionò?
Si parte da “0”, tanto non c’è nulla, quindi all’inizio gli invitati sono stati quelli che hanno accettato una bizzarra richiesta per “fare una mostra”. E non è stato facile. Comunque già alla prima edizione parteciparono personaggi già noti come Matteo Guarnaccia, Muñoz, Palumbo, Staffa… Insieme a ad una trentina di altri autori fuori dall’editoria ufficiale.
Il primo happening si chiamava HU: Happening Underground; era stato unicamente italiano, ma al suo interno, i primi spunti per comprendere il proprio passato nascosto: quel filo conduttore che univa tutte le avanguardie artistiche fin da tempi insospettabili, le loro influenze e contaminazioni. Stiamo parlando di un periodo in cui internet era ancora assente, e l’’editoria era ancora un lavoro molto manuale. La prima edizione, praticamente casalinga, fu inaugurata nel 1993 in un piccolo e centralissimo spazio occupato di Milano che non esiste più, il Centro Garibaldi, nell’’omonima via; fin da subito tutti compresero che era qualcosa di diverso dal solito e di mai visto prima, il successo fu immediato! Tante tavole di fumettisti e illustratori originali si potevano ammirare tutte assieme, con un susseguirsi di riviste e manifesti introvabili, copertine di dischi ed esperimenti grafici sorprendenti, immaginario stilistico del mondo dei Kustom, dei graffiti e street-art, dei tatuaggi e della musica! Ma cosa centravano tutte queste arti tra di loro? La vera sorpresa fu comprendere che erano tutte in qualche modo collegate, che spesso gli artisti più innovativi e determinanti avevano agito ed operato in svariati ambienti underground e nelle diverse discipline influenzandoli stilisticamente. Questo servì a fare comprendere a tutti gli artisti allora contemporanei che avevano un passato da condividere molto più vasto e complesso di quanto avessero immaginato. Il primo obbiettivo era raggiunto!
Con le edizioni seguenti (una all’anno), avremmo attuato una seconda evoluzione determinante per uscire dalla sindrome del provincialismo assoluto che aleggiava in Italia: far conoscere e farsi conoscere nel il resto del mondo. Come? L’idea era di iniziare direttamente dal punto più importante: la patria storica e culla delle controculture più famosa del mondo: San Francisco e la California. Detto fatto, in meno di un anno abbiamo stretto contatti e tessuto rapporti con quanti più artisti, storici e contemporanei, fossero interessati al nostro progetto, negli anni seguenti abbiamo cominciato a invitarli, a mostrare opere inedite e storiche, a produrre mostre tematiche; intanto l’Appening divenne talmente popolare che i piccoli centri sociali non erano fisicamente in grado di contenerlo, si passò pertanto alla sede dello storico centro sociale Leoncavallo che nel frattempo aveva occupato un’ex area industriale vastissima sempre a Milano. Per la prima volta in Italia si poteva vedere dal vero opere di artisti eccezionali come Rick Griffin, Spain Rodriguez, Winston Smith, Paul Mavrides, Firehouse, per citarne alcuni, esposti negli stessi spazi a fianco dei giovani nuovi autori italiani, per la prima volta considerati con rispetto per il loro lavoro.Ora la strada era aperta come un autostrada per tutti gli altri paesi europei e rispettivi artisti! Vennero a Milano artisti inglesi come Gee Voucher e Trevor Brown, il basco Alvarez Rabo, lo spagnolo Miguel Martìn, Zograf dalla Serbia, le Dernier Cri francesi, Peter Pontiak dall’’Olanda, e poi ancora Peter Kuper e gli artisti newyorkesi … Le ultime tre edizioni del HIU furono un evento che non aveva eguali in Europa e nemmeno negli Stati Uniti, tanto che all’’ultima edizione arrivò per incontrarci anche Ron Donovan, fondatore della storica e più famosa casa editrice alternativa amercana Last Gasp. All’’interno dell’’edizione del 2002 inaugura la prima collettiva di street-art contemporanea in Italia, in netto anticipo su quello che abbiamo visto in questi ultimi anni.
G.C. Parliamo di chi si aggregò come organizzatore degli eventi, chi ti aiutò?
C’erano degli artisti che ti aiutavano?
Si, fin dal primo happening gli artisti che abbiamo contattato ci hanno aiutato volentieri, gran parte di essi sono rimasti fedeli collaboratori negli anni seguenti. Soprattutto quelli che capivano lo spirito dell’evento, autenticamente autoprodotto e genuino, si basava sulla collaborazione spontanea e volontaria dei partecipanti.

G.C. Mi ricordo che la mostra collettiva non aveva una selezione, tutti quelli che inviavano i propri lavori, poi venivano esposti. Pensi che questa democrazia totale facesse bene alle persone che partecipavano?
Direi di sì, proprio perché andava contro qualsiasi logica di mercato, finché c’era un angolo libero nei muri si poteva piazzare qualcosa, anche se si usavano magari dei nomi conosciuti per attirare pubblico e giornali.
C.C. Oggi, visto anche quello che dirai tra poco sull’autoproduzione contemporanea (miracoli delle interviste via mail), pensi ancora che per andare contro qualsiasi logica di mercato sia doveroso non selezionare il materiale?
No, non è che non facevamo selezione, la abbiamo fatta eccome! Si presentavano persone con prodotti improbabili, gente che aveva realizzato il primo fumetto o disegnava da pochi mesi! E poi in Italia c’era pochissimo, scuole scarse e nessuna possibilità di editare qualcosa in modo serio, se si voleva crescere era necessario dare un opportunità a quante più persone si poteva, ed io sapevo bene che per fare qualcosa di nuovo non centra la bravura tecnica accademica, ma occorre l’istinto, la passione e anche esperienze che apparentemente non hanno nulla a che fare.
Per fare un esempio estremo, basti pensare a Von Dutch, che è stato il padre fondatore dell’iconografia underground e “ribelle” dall’arte tradizionale e accademica, proveniva da un’esperienza di artigianato classico: dipingeva le vetrine dei negozi in stile liberty (quando ancora si facevano le insegne dei negozi a mano), le sue creazioni hanno cambiato per sempre le regole.
G.C. La Coniglio Editore realizzò un catalogo dell’HIU, come funzionò?
Coniglio si espose e ha rischiato, altre case editrici non lo avrebbero mai fatto. il catalogo andò bene.
G.C. La serigrafia era molto importante come mezzo artistico all’HIU, quali furono gli artisti principali? Venivano stampati lavori inediti anche all’interno dei centri sociali?
La poster-art è stata una componente molto attraente su cui abbiamo giocato molto: nei centri sociali di tutta Italia si producevano continuamente poster, ma erano generalmente orrendi, era necessario migliorare la qualità; influenzando e contaminando con l’esperienza americana abbiamo fatto un buon lavoro, poi una volta che si inizia non si torna in dietro.
A.C. Tra le riviste di quella nuova stagione c’era Hard Times, da te fondata: avevi delle idee estremamente chiare nella sua gestione, quale fu la tua esperienza come editore, cosa ti portò a decidere di crearla e perché cessarono le pubblicazioni?
Hard Times è stata creata da me e “Vandalo” (Stefano Calori); prese vita all’interno dell’ambiente delle autoproduzioni ed era indirizzata soprattutto a quel pubblico, non c’era nessuna pretesa, tentativo o interesse a sviluppi nell’editoria tradizionale, né al mercato.
Noi uscivamo dalla decennale esperienza delle fanzine e riviste indipendenti, prodotte in poche centinaia di copie, che raramente superavano il secondo numero e soprattutto non conoscevano calendari editoriali.
Questo mondo editoriale parallelo è nato con i movimenti underground degli anni ’70, si è sviluppato enormemente e capillarmente negli ambienti anarchici e punk degli anni ’80 e ha terminato la sua strada con il movimento hip hop e il writing nel decennio ’90.
Solo in Italia in questi trent’anni sono state prodotte in questo modo migliaia di riviste: circa 2000 solo per il punk e almeno un centinaio di street-art.
Poi con lo sviluppo di internet tutto ha avuto fine.

A.C. Vennero a crearsi dei canali distributivi come WHIP, quale furono gli esiti di quell’esperienza?
WHIP fu un esperienza incredibile, forse uno dei momenti migliori che ricordo, è sicuramente lì che abbiamo maturato l’happening.
Forse è meglio spiegare di cosa stiamo parlando: nel 1990 io e un folto gruppo di amici decidiamo che a Milano occorre un luogo fisico per la diffusione dei materiali autoprodotti e la cultura alternativa; il Punk era finito ma le nuove contaminazioni erano infinite e occorrevano luoghi e suporti per concretizzare le nuove energie.
Occupiamo un negozio in Via Savona al numero 13 (da qui nascerà poi S13), nel cuore della zona “creativa” e ad un passo dal “divertimentificio” dei Navigli, da sempre luogo di locali e movida notturna.
Il negozio autogestito decolla come un’associazione culturale: in pratica davamo una tessera farlocca e gratuita a tutti quelli che entravano, (nel primo mese 300 persone!) vendevamo riviste e fanzine, dischi e musica, dal punk all’hip hop e tutto quello che usciva dalle etichette indipendenti; ma non solo, avevamo anche scarpe autoprodotte e skateboard! Che in quel periodo era uno sport ancora pienamente integrato nella scena underground.
Il negozio fu chiuso tre anni dopo dalla polizia… ma questa è un altra storia.

A.C. Come vennero gestite le tappe dell’HIU nei tour che interessavano il territorio italiano? Cosa a proposito degli altri eventi ed incontri che si accorparono alla mostra itinerante nel corso del tour? Le tappe straniere?
Era una mostra così emozionante che tutti la volevano, praticamente non ho organizzato veramente un tour, semplicemente tutti mi contattavano da un posto all’altro e volevano una mostra come quella; facevo fatica a capire anche dove sarei andato a finire. Mi contattavano centri sociali e assessori di svariati comuni, associazioni e scuole, le situazioni più variegate insomma; ho portato l’HIU o per lo meno una versione ridotta e sempre dinamica in mezza Italia, dal Forte predestino di Roma a palazzo Bottoni di Pescara, da Lugano fino alla dogana del porto di Catania!
In ogni posto cercavo di individuare coinvolgere gli artisti locali, in questo modo raccoglievo materiali, adesioni e idee per le mostre successive.
Nessuno mi ha pagato per questo, rientravo nelle spese e mi rimborsavo i viaggi, ho conosciuto centinaia di persone e le situazioni più diverse.
A.C. Nel 2002 i tempi stavano cambiando, il G8 di Genova si era verificato da un anno scarso, il progetto / controvertice GI.OTTO da te creato nel 2001 viveva come appendice dell’HIU, ce ne vuoi parlare?
È un argomento sempre spinoso per me, la cosa più brutta è stato assistere impotenti allo sfacelo del paese, concentrato in tre giorni, vedere cose orribili ed errori clamorosi, nell’impotenza fisica di agire, gridare a vuoto senza essere ascoltato. Il progetto GIOTTO era nato proprio dal HIU, ma tutto quello che avremmo voluto fare non è stato fatto, un disastro.
Sono stati i giorni più lunghi della mia vita e mi hanno lasciato un segno indelebile.
A.C. Gli eventi di Genova influirono sull’HIU8?
Certo, per dimenticare.
A.C. L’ultima edizione dell’HIU fu nel 2003, cosa ha portato a uno stop dell’evento?
Era ormai troppo grande e sapevo che non avremmo avuto le forze per rifare un’edizione migliore, piuttosto che creare delle edizioni più fiacche era meglio fermarsi; diciamo come quando decidi che la festa è finita prima che degeneri, così avrai un bel ricordo!
C. C. E’ questa la prospettiva delle cose belle? Arrivare al loro Zenith e spegnersi così come sono venute? A parte questo lavoro che stiamo facendo, intervista compresa, c’è un modo e se c’è quale, di riuscire a conservare la storia del movimento underground?
È un dato di fatto, non ho creato io il mondo, sono pragmatico, i fiori durano ancora meno!
Stiamo già facendo un primo lavoro di memoria, è questo che bisogna fare: scrivere, pubblicare raccontare e lasciare documenti ai posteri, usando tutti i canali e gli strumenti a disposizione come si fa per qualsiasi altro evento che ha fatto parte della nostra vita, e come tale è un dovere raccontarlo e storicizzarlo.
La cosa più importante, è che ora tutti possono prendere l’iniziativa di dare vita a qualcosa di nuovo, ma senza dimenticare che è doveroso e giusto conoscere la storia, soprattutto se si vuole farla propria.
A.C. Uno degli aspetti fondamentali dell’HIU è stata la sua capacità di mettere in connessione artisti di varie discipline: ma il mondo della creatività è tornato a un forte autoreferenzialismo spesso rintanandosi nella dimensione del web e dei social, che anzichè mettere in contatto per paradosso isola, complice spesso l’egocentrismo tipico di tanti artisti. Come hai vissuto in quei giorni la partecipazione degli artisti al progetto, il dialogo con loro ha portato ad arricchire l’esperienza aprendo nuovi percorsi? Momenti illuminanti?
La socialità contemporanea è orrenda: siamo tutti attaccati ad uno schermo, ma tutta la meraviglia della rete non ci ridarà mai quelle emozioni degli incontri fisici, dobbiamo imparare di nuovo ad uscire di casa oppure finiremo a scrivere solo “quanto era bello prima” senza capirlo veramente.
A.C. L’HIU non è più, è stata un’esperienza unica e irripetibile perché connessa a una serie di cambiamenti, letteralmente, epocali in atto, ma c’è ancora chi cerca un erede, lo proclama o vuole intravvedere ideali proseguimenti. Che ne pensi? La tua attuale idea di come dovrebbe essere un happening / festival è cambiata? Ritieni che ci siano ancora idee che possano essere portate a questi eventi?
Dovrà succedere per forza, in un modo o nell’altro, forse quando salterà la luce…
A.C. “Io parto da questo presupposto: tutto è politica, anche l’aria che respiriamo, niente si può scindere da essa, nemmeno un fumetto per bambini” appunto nello Spazio Bombonera del Leoncavallo si tennero dei laboratori di fumetto per bambini, un fronte aperto solo nelle edizioni più recenti che io ricordi, da che era nata l’esigenza? Era inserita idealmente in un percorso formativo, in qualche modo propedeutico a quello che avveniva nel mondo dei “grandi”?
Quello che va insegnato ai bambini è essere sè stessi e come usare le proprie capacità, mai una dottrina.
Uno spazio un po’ selvatico e irrazionale aiuta a capire che l’arte non può avere limiti né paletti, le discipline artistiche invece si, come anche la socialità in tutte le sue forme; il futuro artista si realizza quando sviluppa la mediazione e l’equilibrio giusto tra queste cose.

A.C. Nei primi anni dell’HIU cominciò a riconfigurarsi la nuova editoria italiana a fumetti, formati, idee, orientamenti, nuove e future case editrici crebbero nel grembo di quel meltin’ pot di idee ed energie. Osservando l’attuale scena indipendente italiana come consideri l’uso / fenomeno ormai quasi assurto a status symbol per molti giovani autori della autoproduzione? Cosa è cambiato a tuo avviso e come?
Forse non abbiamo un concetto uguale di autoproduzione, io in questo momento non vedo “autoproduzione” come si intendeva prima, e per fortuna direi.
Prima c’erano situazioni che vivevano completamente fuori dai sistemi, si faceva tutto, ma proprio tutto da sé, si produceva e si consumava in un circuito completamente distaccato: musica, immagini, cibo e vestiti, in una ricerca continua e sperimentale che poi ha contaminato i sistemi senza neanche accorgersi; tutto quello che sta diventando di uso comune e dominio pubblico è stato precedentemente sperimentato su piccola scala anche se con mille contraddizioni ed errori giustificabili.
Ora si parla di biologico, di chilometro “0”, di prodotti naturali, etici, equo e solidali, editoria indipendente e d etichette indipendenti, fino ad arrivare alla banca “etica”, beh, tutto ciò ha avuto una radice nell’underground.
Ciò non significa che si è “corrotto” ma che invece ha vinto perché è divenuto massivo; questo sposta sempre oltre la ricerca del mondo migliore e la soluzione dei problemi, quando un messaggio è stato trasmesso, bisogna andare oltre e mai fermarsi crogiolandosi nel passato.
Le nuove generazioni non si possono rendere conto quanto sia stato faticoso e difficile questo percorso:
negli anni “80 era un vero problema soltanto uscire di casa con un orecchino al naso, la gente ti fermava per strada continuamente, chiedere un panino vegetariano era un atto di coraggio perché in cambio ricevevi insulti e risate, un tatuaggio era sinonimo di galera e dire di essere pacifisti voleva dire: “picchiatemi pure”.
Le conquiste culturali che oggi appaiono banali erano ostacoli che sembravano insormontabili, ma sono questi piccoli comportamenti quotidiani che portano ad una società migliore.
Queste lotte erano dirette comunque all’interno della società occidentale, il resto del mondo ne era fuori, ma ora la nuova sfida è come “globalizzare” il rispetto per il prossimo e per il pianeta, sarà molto molto doloroso.
C.C. Penso a tanti autori di fumetti contemporanei italiani. Gli stessi Gianluca Costantini e Alberto Corradi, ma anche Alessio Spataro, Alessandro Baronciani, Marco Corona… tanti autori che io personalmente ho conosciuto proprio nelle diverse occasioni in cui, dalla provincia, mi sono mosso verso HU. Oggi questi autori sono abbastanza abitualmente reperibili in libreria, e bene o male la possibilità di presentare i propri lavori al pubblico tra centri sociali, locali, biblioteche, librerie e fumetterie portandoli in giro dipende sostanzialmente dalla disponibilità di ogni singolo autore. In questo contesto cambiato, da dove vedresti nascere un nuovo HU? Come lo vedresti vent’anni dopo?
Ma, è difficile dire cosa si può fare adesso, mi sembra come chiedere: come vedresti oggi un festival di Re Nudo?, non lo vedo proprio! è la gente, il tessuto sociale e il contesto storico che determinano il successo di una iniziativa di questo tipo. Dopo vent’anni tutto è cambiato, bisogna avere le antenne, captare le meteore sparse nella galassia e creare un polo di attrazione. Se le coincidenze astrali lo permettono funzionerà subito, come per HU, ma qui occorre un sesto senso.
C.C. Continuando in questa suggestione dell’HU “che potrebbe essere”, che ospiti ci vedresti, oggi? Esteri e indigeni: vedi oltre l’affermarsi di figure che hanno partecipato al ciclo precedente, qualche novità rappresentativa emergere?”
Ce ne sono sempre, ma non bisogna dirlo “prima”, nè annunciarlo, altrimenti non funziona.