
Nei primi anni Novanta tutto pareva possibile.
La Rete non era ancora così diramata, l’uso del computer era limitato come molti programmi di grafica e il print on demand era ben lungi da venire. Tutto quello di cui si aveva bisogno al tempo erano carta, pennarelli e qualche pennello, fiumi di china, una macchina da scrivere, bianchetto quanto basta e una fotocopiatrice a portata di mano, macchine bolse che spesso funzionavano male e allora bestemmie e ancora bianchetto, china per correggere e mettere tutto a registro, ore di lavoro che andavano a sommarsi a ore di lavoro per riuscire a ottenere un esecutivo decente che poi qualcun altro avrebbe trovato modo regolarmente di scazzare di nuovo tentando di impaginarlo amatorialmente prima di ricacciarlo in un’altra fotocopiatrice. Tutti volevano creare la propria fanzine, si andava in edicola per documentarsi, si parlava un sacco, si leggeva molto, si beveva il doppio. Le riviste storiche di fumetti erano ancora lì, a fare bella mostra sugli scaffali degli edicolanti e noi tutti, prima o poi, speravamo di finirci dentro, sognando compensi faraonici. Arrivarono per molti di noi i primi lavori seri, i primi soldi veri. Qualcuno pensò bene di mettere da parte per farsi una propria rivista, roba grossa, gruppi di disegnatori aprivano il portafoglio e elargivano la loro quota per costituire capitale comune dopo essersi recati in pellegrinaggio da uno stampatore o una fotolito per un preventivo (autentiche estorsioni, il più delle volte). Così si passò alla rotativa e di lì al baratro della distribuzione che non c’era. Si mandava a tutti per una recensione, ci si chiedeva perché se ne erano stampate 1000 e non 500 di copie, di quegli scatoletti dannati che non sapevi più dove mettere, sotto la panca, nel ripostiglio che li guardavi e pensavi che quelli erano il mezzo, ma come farli arrivare se i distributori interpellati nemmeno rispondevano? Non li avevamo calcolati i soldi di uno stand a Lucca, la cifra nemmeno si poneva. Qualche presentazione in qualche libreria amica, piccole giacenze in contovendita in qualche altra, un paio di tappe in centri sociali, qualcuno leggeva la recensione e allora si spedivano un paio di copie con lettera di accompagnamento e dediche occasionali.

Nel 1993 cominciò a spargersi la voce dell’HU, un passaparola che si diramava in tutto il Nord-Est e nel resto dello stivale. Fu così che si giunse a Milano in ottobre carichi di copie negli zaini e di belle speranze: il cielo colto di scorcio tra il cemento armato della scalinata della Metro e un senso di eccitazione misto a uno di inadeguatezza. La prima volta che misi piede al Centro Autogestito Garibaldi e vidi mostra e stand e tutti quei pochi amici e colleghi che conoscevo al tempo tutti lì raccolti pensai alla riunione nel parco delle gang giovanili de “I Guerrieri della Notte”. Ci stavamo contando per la prima volta ed eravamo un piccolo esercito. Cominciò a formarsi anche una forma nuova di consapevolezza, un momento magico in cui gli ego dei singoli misero da parte i sogni di gloria e si aggregarono, portando ad un nuovo livello la discussione su quello che si stava facendo, creando o disfando. Non ce ne eravamo ancora resi conto appieno, ma avevamo intrapreso un percorso che avrebbe cambiato per sempre la corrente della nostra vita e non solo. Eravamo tanti all’inizio degli anni Novanta, ma col passare del tempo cominciarono a delinearsi chiare esigenze e volontà, solo pochi proseguirono il loro viaggio nel mondo del fumetto, mentre altri intrapresero carriere parallele e altri ancora scomparvero, chi prima chi dopo. A guardare adesso, si contano sulla punta delle dita di due mani i testimoni delle prime due edizioni dell’HU che ancora sono al tavolo da disegno.
Le fotocopiatrici che usavamo negli anni Novanta per i nostri esperimenti editoriali ora giacciono esanimi, rottami e pezzi sparsi in qualche archivio dimenticato.
Abbiamo deciso di raccogliere quei pezzi per ripristinare memoria e se possibile restituire un po’ di verità attraverso le parole dei testimoni su un periodo storico che fu così gravido di conseguenze per l’editoria a fumetti e per l’arte italiana. Un rottame che riassemblato seppur non da uno studelinquente (non abbiamo più l’età) dà come risultato una creatura sbuffante e armata di bicipiti carica di quell’energia che animava un manipolo di ventenni o poco più.
Un solo verso, un ruggito gutturale. Znort! A.C.