ChannelDraw
Gianluca Costantini
Graphic Journalism

Militanza grafica di Daniele Barbieri

Forse l’aspetto che più apprezzo del graphic journalism è che è costretto a schierarsi. Una foto può far credere di essere oggettiva testimonianza dei fatti, fingendo trascurabili le mille scelte di cui è figlia, non ultime quelle dell’attimo in cui scattarla e del taglio dell’inquadratura. Un discorso verbale può mascherare agevolmente, specie se è scritto, il fatto di essere il prodotto di una voce, di una soggettività, di un’opinione: ancora più della foto, in verità, le parole non possono non esprimere il punto di vista – ma se non lo manifestano possono benissimo spacciare quello che dicono per oggettivo resoconto dei fatti.

Lo può fare anche il disegno? Virtualmente sì, magari travestendosi da foto, proprio per apparire il più oggettivo e distaccato possibile. Ma il graphic journalism, fin dalla sua origine, non ha scelto questa strada – e se l’avesse scelta io credo che non avrebbe nemmeno avuto grande successo. Al contrario, la strada scelta è stata sempre, in misura più o meno accentuata, quella della visione personale, sino agli estremi del taccuino e del diario, in cui la stessa caratterizzazione grafica di personaggi e situazioni rivela già la disposizione dell’autore nei loro confronti.

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Del resto, il graphic journalism non diffonde notizie fresche. Il processo creativo che gli è necessario ha comunque tempi che sono troppo più lunghi di quelli del giornalismo tradizionale, scritto o fotografato. Si presta semmai a riflessioni e approfondimenti, a farci vedere le cose da un punto di vista differente, a sottolineare aspetti che non erano stati ancora sottolineati, a creare collegamenti altrimenti difficili. Ed è cruciale in queste operazioni il particolare rapporto tra parola e immagine che caratterizza il fumetto.

Siamo lontanissimi dalla spettacolarizzazione dell’audiovisivo, che gioca sull’immagine fotografica in movimento (una quasi-realtà) per costruire un’illusione di presenza sapientemente accompagnata dal giusto discorso verbale, il tutto, spesso, con una presunzione di oggettività attraverso la quale è sin troppo facile giocare sui sentimenti del pubblico. Il fumetto è inevitabilmente uno strumento più freddo, meno immediatamente coinvolgente, più critico – quale sarebbe in potenza anche la parola scritta.

Ma il fumetto è più rapido: lo sguardo che coglie l’immagine raccoglie l’informazione necessaria molto più rapidamente di quello che legge il testo verbale, catturando in quell’istante anche tutte le alterazioni che esprimono il punto di vista: deformazioni caricaturali, enfatizzazioni di certi dettagli o scomparsa di altri (tipicamente gli sfondi, o parte di loro). Del resto il disegno, basato sulla linea, inevitabilmente seleziona e semplifica, e nel farlo deve scegliere, e la scelta è comunque politica. La parola che l’accompagna può fare il resto.

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Quella che trovate in questo libro è una panoramica di visioni inevitabilmente schierate, di parte, di tanti dei principali eventi politici nel mondo degli ultimi dodici anni. Sono visioni rese con efficacia e concisione: il vantaggio del disegno è di poter fare riferimento diretto all’universo delle immagini, fotografiche e televisive, senza rimanerne vittima. Il disegno di Costantini riformula immagini che magari, nella loro versione standard, ci sono già note (o assomigliano a immagini note), ma in questa versione si rivela spesso una violenza che l’originale tradisce o nasconde, e questo viene rafforzato o confermato dagli accostamenti con altre immagini, mentre le parole sono immagini a loro volta, e anche loro ricordano parole già dette, manifestando tuttavia a loro volta una violenza che l’originale nasconde, o tradisce.

Come ogni buona informazione, il graphic journalism, e in particolare questo, non ambisce a un’inarrivabile oggettività. Preferisce la logica del taglio particolare, quella che rivela aspetti diversi, aspetti che magari si collegano l’uno all’altro, tra un servizio e l’altro, da una parte del mondo all’altra, costruendo una rete, un’immagine complessiva, magari ancora un po’ sfocata (perché del mondo, nella sua complessità, è certamente falso che si possa avere un’immagine chiara) ma suggestiva e certamente inquietante.

Il graphic ournalism chiama dunque, in qualche modo, alla militanza. Forse, in questa militanza, non sapremo bene che cosa vogliamo (solo gli estremisti lo sanno, o credono di saperlo); ma leggendo queste pagine appare sufficientemente chiaro che cosa di certo non vogliamo.

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