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Gianluca Costantini
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Il giornalismo a fumetti

L’Italia è il terzo paese al mondo nella produzione di graphic journalism, eppure questo genere sconta ancora alcune resistenze da parte del giornalismo tradizionale. Ma qual è la differenza che corre fra i due? Se il lavoro d’inchiesta e i temi affrontati sono gli stessi, il giornalismo a fumetti si distingue per una forma espressiva che mescola parola e immagine. Vantaggi e difficoltà di un genere in crescita nel dialogo fra il giornalista-sceneggiatore Marco Rizzo, il fumettista Gianluca Costantini e il critico Matteo Stefanelli.

Micro Mega: In occasione di questo numero dedicato al giornalismo, abbiamo ritenuto opportuno sentire anche la voce di chi, come voi, fa giornalismo in modo diverso, utilizzando il fumetto. Cominciamo allora spigando cos’è il graphic journalism.

Marco Rizzo: Il graphic journalism è semplicemente una forma di giornalismo tra tante altre: così come si può fare giornalismo attraverso la parola scritta, o con l’utilizzo di video o infografiche. lo si può fare anche attraverso il fumetto, che è un linguaggio e in quanto tale può veicolare qualsiasi tipo di informazione, da avventure fantastiche di super eroi, a storie autobiografiche fino a fatti di cronaca realmente accaduti. Di certo non è una forma di giornalismo tradizionale, potendo contare sui punti di forza tipici del fumetto, ossia l’equilibrio tra la parola scritta e il disegno. Porto come esempio una tavola di Joe Sacco – è uno dei più importanti graphic journalists al mondo – contenuta in Goražde. Area protetta: nella prima vignetta c’è un mezzo busto di una persona che sta parlando nel balloon c’è il testo nell’intervista in quella sequenza c’è una cartina geografica di un angolo della Bosnia-Erzegovina sempre disegnata da Sacco; nelle due vignette successive una ricostruzione storica in cui l’autore disegna la scena raccontata dalla persona intervistata. Insomma in una sola pagina si possono inserire grafici, cartine, mappe, si può disegnare un flashback: tutti elementi che, se realizzati in una forma più tradizionale come può essere un video, richiederebbero più persone e più soldi. Il graphic journalism non e quindi il giornalismo cui siamo abituati,  ma è forse il giornalismo cui ci stiamo abituando, perché, in un’epoca in cui le immagini sono così importanti per veicolare informazioni, il fumetto permette di condensare tutti questi aspetti in un unico linguaggio.

Gianluca Costantini: Concordo con tutto quello che ha detto Marco. Giornalismo e fumetto sono due linguaggi e il graphic journalism è un’ibridazione, un mix tra i due. Aggiungo anche che è un linguaggio veramente giovane e ancora in una fase di sperimentazione, quindi difficile da definire.

Matteo Stefanelli: Possiamo, però, affermare che all’interno del graphic journalism – forma giovane sia sul piano giornalistico che su quello fumettistico, dunque ancora sfuggente – cominciano a delinearsi diversi tipi di giornalismo. Nel vostro caso mi sembra che emergano due tipologie differenti di attività: quella del reporting journalism – su cui Marco è attivo proprio ora con il progetto Salvezza, primo reportage a fumetti che documenta le operazioni di ricerca e salvataggio dei migranti in mare – in cui il giornalista con i propri mezzi (la penna, il taccuino, la fotocamera, la video-camera, o in questo caso il pennello, la matita o il pennarello) va sul campo a raccogliere elementi per poterli raccontare; e quella del desk journalism – talvolta un lavoro di vero e proprio «fact-checking disegnato» – su cui è impegnato invece Gianluca. 

Costantini: sì questa è la grande differenza nel nostro lavoro. Marco inoltre è un giornalista, uno scrittore e lavora con dei disegnatori, mentre io in questo momento sto facendo l’opposto, in quanto sto lavorando con una giornalista, Francesca Mannocchi, che è in Libia e mi invia le notizie, mentre io disegno da casa, dalla mia scrivania. Si tratta di diversità che si ritrovano ugualmente anche nel giornalismo classico: si può, infatti, fare giornalismo da lontano, così come si può fare giornalismo estremamente vissuto. E qui possiamo cominciare a mettere qualche paletto all’interno del fumetto giornalistico, perché in alcuni casi il fumetto che viene definito così in verità è un fumetto diaristico, come quello di chi va in vacanza in un posto e lo racconta. Non graphic journalism, come non lo è il fumetto storico.

Rizzo: Come ha detto Matteo, Salvezza è un reportage in senso stretto: il disegnatore, Lelio Bonaccorso, e io abbiamo infatti passato tre settimane a bordo di una nave di soccorso dell’ong SOS Mediterranée. Ho insistito affinché venisse anche lui, perché – al pari di un operatore video – con la sua sensibilità, il suo occhio, il suo gusto estetico, non poteva che arricchire il reportage. A dispetto forse di quanto pensa Gianluca, io ritengo, però, che anche i miei lavori precedenti sulla vita di Mauro Rostagno o di Ilaria Alpi costituiscano una forma di giornalismo perché – per quanto fumetti storici – hanno alla base una ricerca che spesso sconfina nell’inchiesta. Nel caso di Rostagno non si è trattato solo di fare ricerche di costume su come ci si vestiva negli anni Sessanta o Settanta: quello che ho raccolto in termini di interviste e testimonianze è poi in parte confluito nel processo che e partito due anni più tardi e ha portato alla condanna in primo grado di due persone che nel fumetto avevo indicato come colpevoli. Segno che a volte su una verità che non esiste – ne a livello processuale, né a livello storico – il giornalista si sostituisce alle normali procedure d’inchiesta degli apparati dello Stato. Penso per esempio ad Andrea Purgatori e alle sue inchieste sulla strage di Ustica. Per me, dunque, anche un fumetto storico può essere graphic journalism se alla base c’è un’inchiesta su fatti di cronaca del passato recente, su cui ci sono ancora dei margini per indagare. Concordo con Gianluca, tuttavia, quando dice che questa definizione spesso è usata con una certa approssimazione per necessità di marketing. Io per esempio ho difficoltà a definire Maus di Art Spiegelman un’opera di graphic journalism: è vero che abbiamo di fronte un figlio che intervista il padre sulla Shoà, ma alla base non c’è intenzione giornalistica e si configura quindi in primo luogo cone una storia familiare. Per me non è graphic journalism nemmeno Persepolis di Marjane Satrapi, perché l’autrice racconta semplicemente la propria vita, narrando incidentalmente un determinato passaggio della storia dell’Iran. Non e giornalismo nemmeno quello che fa Guy Delisle con Pyongyang o con Shenzhen, perché non va in questi luoghi come giornalista: i suoi sono quaderni di viaggio. Sarà che io sono stato profondamente plasmato dagli studi e dall’esperienza da giornalista, ma, che io stia facendo reportage in senso stretto o ricostruzioni di fatti storici, mi pongo delle domande e assumo metodi che sono quelli tipici del giornalismo.

Stefanelli: Ragionando in termini cine-televisivi o letterari Maus o Persepolis sono più vicini al documentario che al giornalismo. E forse il graphic journalism ha questa difficoltà di definizione proprio perché, nel suo uso comune, il termine mescola giornalismo vero e proprio con diverse forme di «non fiction», più vicine al documentario, storico o di attualità, alla saggistica di testimonianza, alla ricostruzione storiografica o persino al memoir.

Costantini: Gli esempi che ha fatto Marco sono i più lampanti, ma ce ne sono tanti altri e questo dimostra quanto sia importante che tale linguaggio si emancipi. Peraltro, il graphic journalism non deve per forza avere una determinata lunghezza – quella del libro, per esempio – ma può assumere anche la forma di un breve articolo o di una piccola storia di poche pagine. Formati a mio avviso molto interessanti perché permettono di intromettersi e di entrare nei supporti del giornalismo classico, nel quotidiano come nel portale di informazione in rete, assumendo ancora più forza rispetto a quanto non possa fare il libro.

Stefanelli: La questione del graphic journalism è infatti anche una questione di supporti… Quali sono le vostre esperienze? Quali limiti o opportunità avete riscontrato a seconda dei differenti mezzi?

MicroMega: E aggiungerei: come incide tutto ciò sulla scelta delle storie che decidete di raccontare?

Rizzo: Se devo lavorare su un caso di cronaca come quelli di cui parlavo prima – che hanno bisogno di un certo grado di approfondimento – è chiaro che non posso stare dietro ai tempi di pubblicazione cui siamo abituati quando parliamo comunemente di giornalismo. Il fumetto ha naturalmente bisogno di tempi di produzione più lunghi, anche solo per permettere al disegnatore di realizzare le tavole. Rispetto a Gianluca poi, che è anche disegnatore ha uno stile abbastanza veloce, io, essendo sceneggiatore, aggiungo un ulteriore passaggio, perché devo confrontarmi con una seconda persona, il disegnatore appunto. Salvezza per esempio uscirà a maggio, ma racconta un’esperienza che si è svolta a novembre: già alcune delle condizioni sono mutate, quando il fumetto uscirà ne saranno cambiate anche altre, ci sarà un altro governo, probabilmente un altro ministro dell’Interno. Sarà quindi necessario connotare il nostro fumetto con le dovute informazioni sul contesto. La speranza – cinica se vuoi – ma anche la consapevolezza è che le storie che abbiamo raccolto tra gli operatori e tra i migranti, essendo storie universali, continueranno a essere interessanti anche a distanza di tempo.

Costantini: Per i disegnatori il «limite» è chiaramente il tempo. Credo che sia per questo che l’editoria è ancora molto reticente nell’avventurarsi in un settimanale o in un mensile di puro graphic journalism, che sia cartaceo o sul web, perché non ci sono molti disegnatori veloci che potrebbero tenere il ritmo necessario e un giornale di questo tipo non si può basare su un gruppo troppo ristretto di persone. Stare sulla notizia col disegno è difficile, anche se devi fare solo una tavola. Perché ogni informazione, come nel giornalismo classico, deve essere verificata, nulla può essere improvvisato. Mi è capitato per esempio di preparare una notizia sulla censura turca per il settimanale Internazionale che non è stata poi pubblicata perché superata dai fatti.

Stefanelli: I vostri percorsi ricordano da vicino quelli dei giornalisti «classici» anche rispetto allo sviluppo di aree di competenza. Penso per Rizzo ai temi di mafia e per Costantini al Medio Oriente e ai relativi movimenti sociali e politici. Questo tipo di specializzazione vi ha posto delle sfide particolari nel lavoro fumettistico o le sfide sono quelle di natura giornalistica, a prescindere dai problemi del linguaggio-fumetto?

Rizzo: Nel mio caso le tematiche non hanno costituito una sfida specifica sul piano fumettistico perché ho sempre trovato dei canali per poterle trattare. Qualche tempo fa, con Lelio Bonaccorso, ho pubblicato sulla «Lettura» del Corriere della Sera – che ha due pagine dedicate al fumetto – alcune piccole inchieste su un caso di cronaca del passato, l’omicidio di Nino Agostino; in un’·altra occasione ho ripreso una vecchia intervista al comandante di un peschereccio di Mazara del Vallo, colui che trovò il famoso Satiro danzante, traslandola nel linguaggio del fumetto. A dimostrazione che alla fine è possibile raccontare la stessa storia con linguaggi differenti. Negli ultimi tempi poi ho ampliato il mio sguardo a altre tematiche, quali l’immigrazione e l’accoglienza, che .sento vicine anche geograficamente, vivendo in Sicilia. Si tratta di questioni che purtroppo restano sempre di attualità e rispetto alle quali c’è dunque un’attenzione anche editoriale. La sfida è quindi per me quella tipica del giornalista: le tempistiche, la raccolta della documentazione, la selezione e la verifica delle fonti. Nel caso di questioni legate alla mafia molte volte parliamo di tonnellate di documenti, spesso contraddittori. Sull’omicidio di Rostagno, per esempio, adesso si è arrivati a una verità giudiziaria, ma quando ho cominciato a lavorarci c’erano innumerevoli versioni dei fatti. Per quanto riguarda l’argomento immigrazione e accoglienza, non essendo ancora mai andato in Africa, il problema principale che ho davanti è di poter fare affidamento solo su una fonte secondaria che, secondo le regole insegnate alla scuola di giornalismo, non è una fonte affidabile al cento per cento, ma andrebbe verificata. Mi riferisco alle testimonianze raccolte tra i migranti, ad esempio sulle condizioni dei cosiddetti centri di detenzione in Libia. 

Costantini: Lo sviluppo di queste specializzazioni dipende anche dalle passioni personali di ciascuno. Io mi sono quasi sempre occupato di esteri e in particolare di Medio Oriente e Nord Africa perché queste zone sono quelle dove ho le fonti più sicure e di cui meglio conosco le dinamiche sociali. In questo momento ho uno spazio quasi fisso su EastWest, in cui di fatto propongo della geopolitica a fumetti. Ma si tratta di cose che sto studiando da 15 anni. Non ci si può improvvisare su questioni di questo tipo: bisogna essere informati e sapersi destreggiare a seconda dell’argomento e del contesto che si racconta. E questo processo delinea poi l’autore stesso, il cui profilo si definisce in quanto conosce quel determinato argomento e racconta quel tipo di storia. La visione di ciò che racconta fa sì che quello, per me, sia graphic journalism. Cosa il disegnatore sceglierà di raccontare e come lo farà costituiscono la chiave diversa che può rappresentare un valore aggiunto per un giornale classico.

MicroMega: E proprio su questo, secondo voi qual’è il contributo che il graphic journalism può dare all’informazione? Il giornalismo ci guadagna qualcosa, arrivando per esempio a un pubblico diverso? Oppure perde qualcosa perché nello sceneggiare una notizia si è costretti a tralasciare pezzi di verità?

Rizzo: Quella del sacrificio di pezzi di verità è una questione che si pone in qualunque forma mediata di racconto della realtà: vale per come si taglia una fotografia, per come si monta un video, ma anche per come si scrive un articolo, per ragioni di spazio o per ragioni meno nobili, per esempio per compiacere uno sponsor. Rispetto alla questione del target, penso che il graphic journalism abbia un certo ascendente su una fetta di pubblico particolare, quella che normalmente legge solo i titoli e le infografiche e che, affascinata dal disegno si può sentire attratta da questo modo di mediare una notizia. So che questo è accaduto perché ho avuto riscontri da parte di appassionati di fumetto che si sono avvicinati ai temi che tratto grazie al fatto che uso questo linguaggio. Da quel che vedo aIIe presentazioni dei miei lavori, il mio pubblico è giovane, tra i 20 e 35 anni, ma e difficile fare generalizzazioni. I nostri libri poi – e penso in particolare alle collane di BeccoGiallo – vengono spesso usati come «cavalli di Troia» nelle scuole: temi come la mafia, l’immigrazione, il Medio Oriente vengono proposti agli studenti sfruttando il luogo comune che i fumetti sono roba per bambini. Si tratta dì un luogo comune infondato e, come tutti i luoghi comuni, duro a morire, ma si può imparare a sfruttarlo, come in questo caso, per insinuarsi in certi canali.

Costantini: Il mio target è un po’ diverso, giacché è composto per lo più da un pubblico adulto (di 20-30enni, ma anche di 40-50 enni) e non proviene quasi per niente dal mondo classico dei fumetti, bensì da quello della comunicazione, del giornalismo, dell’attivismo. Ho uno stile ultra-anglosassone: non faccio fumetti che possono emozionare più di tanto, nelle mie tavole non c’è il fumettista che si mette in prima persona come per esempio fa Joe Sacco, non ci sono io, ma c’è solo il fatto, il racconto, l’inchiesta e quindi chi sceglie di leggere i miei lavori lo fa perché è davvero interessato all’argomento trattato. 

Stefanelli: E di questi giorni la notizia che in coincidenza con il lancio del nuovo marchio dedicato al fumetto Feltrinelli ha deciso di modificare la suddivisione in categorie con cui sottopone i libri per i punteggi delle classifiche librarie. Libri di fiction come Un amore esemplare di Daniel Pennac e Florence Cestac verranno presentati come narrativa straniera (o italiana), non più nella categoria «Varia» tradizionalmente usata per i fumetti; allo stesso tempo i lavori di graphic journalism – e il primo sarà proprio Salvezza di Rizzo e Bonaccorso, pubblicato appunto da Feltrinelli Comics – saranno inclusi nella saggistica. Mi sembra un segnale importante: per il fumetto, che è una forma espressiva multigenere, rappresenta il sintomo di una maturazione nella sua percezione culturale. Si tratta di dare il giusto nome alle cose», finalmente. cosa ne pesate? 

Rizzo: E una mossa che trovo sensata nell ottica di equiparare la parola «fumettata» alla parola scritta. Inoltre la presenza in classifica ha anche conseguenze importanti in tema di vendibili. Penso poi che non essere nella stessa classifica in ci ci sono i calciatori e comici di Zelig, senza togliere loro nulla, possa dare al fumetto uno slancio in più. Il volume di Pennac che hai citato Matteo, è sicuramente più affine ai suoi lavori precedenti che al libro di un calciatore. In Feltrinelli questo cambiamento si avverte anche in ambito produttivo. I vari progetti di Feltrinelli Comics – collana di cui è responsabile Tito Faraci – sono seguiti da persone che hanno specializzazioni differenti: io per esempio sono affiancato dall’editor di saggistica.

Costantini: È una cosa senz’altro utile ed è un po’ anche una risposta ai dubbi che i librai possono nutrire circa la collocazione da dare ai fumetti negli scaffali, ma mi lascia abbastanza indifferente poiché riguarda più che altro le case editrici e i distributori.

Stefanelli: Le classifiche dei giornali non fanno gli scaffali in libreria, però alfabetizzano i librai e le catene’ Quindi’ grazie a una scelta come quella di Feltrinelli Comics, librai e librerie possono avere uno strumento in più per collocare una biografia di Gramsci a fumetti – come quella che hai fatto tu, Gianluca – tra le altre biografie a lui dedicate.

Rizzo: In alcune librerie indipendenti siciliane i miei fumetti su Peppino Impastato e Mauro Rostagno sono già oggi esposti nella sezione dedicata alla mafia. Però, allo stato attuale resta una scelta affidata alla coscienza del singolo libraio (più facilmente se indipendente). Sarebbe molto positivo se questi non rimanessero casi isolati, perché in tal modo si potrebbe arrivare a un pubblico interessato al tema, ma magari poco avvezzo al fumetto, dandogli così modo cli scoprire un linguaggio che può raccontare quella storia con la stessa dignità e la stessa competenza della parola scritta. Certo è vero ché poi così si potrebbe escludere chi invece ha familiarità con quel linguaggio, ma magari non con quei temi.

Stefanelli: È vero che il fumetto è un linguaggio di confine che complica un po’ le cose, ma è utile qui ricordare che i paesi con molte più librerie del nostro – dalla Francia all’Inghilterra, dalla Francia all’Inghilterra, dalla Germania agli Stati Uniti – risolvono alla radice questo problema facendo entrambe le cose: il prodotto è presente sia nello scaffale della saggistica sia in quello dedicato ai fumetti. Tornando invece a questa più «tecniche», pensate che il graphic journalism inizi a presentare, ormai, alcuni filoni dominanti per quanto riguarda gli stili visivi? E dal vostro punto di vista, ritenete che alcuni approcci grafici siano più efficaci di altri?

Costantini: Per me è un aspetto molto importante. Io penso che nel graphic journalism ci debba essere un certo tipo di linea, un certo tipo di disegno” funzionale a ciò che viene raccontato e che non imbamboli il lettore per la sua bellezza. L’autore deve adattarsi il più possibile alla storia e raccontarla in modo che il segno sia calibrato su di essa, anche a costo di rinunciare al proprio stile per cercare di sperimentare un linguaggio nuovo. Io, per esempio ritengo. che il disegno troppo realistico non sia fatto per il graphic journalism, il che può sembrare un paradosso. Ho la sensazione che a essere più efficace sia il disegno più appositamente studiato per la storia che si propone di narrare, adeguandosi a ciò che intende raccontare.

Rizzo: Nella mia esperienza ci sono stati, in effetti, progetti in cui il disegnatore si è «piegato» alla necessità della storia. Per il libro su Rostagno – che attraversa quarant’anni di storia d’Italia ed è ricchissimo di personaggi noti, come Adriano Sofri o Renato Curcio – avevamo bisogno di un disegnatore con un tratto realistico, che potesse aiutare il lettore a distinguere i personaggi tra loro, a riconoscere le varie epoche in cui il raccontò è ambientato. E abbiamo quindi scelto un artista dal tratto dettagliato come Giuseppe Lo Bocchiaro. Per me non c’è uno stile più efficace di un altro, tutto dipende da quello che richiede la storia e se il disegnatore riesce a calibrare il proprio tratto secondo le necessità del racconto penso non ci sia il rischio che il disegno distragga con la sua bellezza.

MicroMega: Qual è la situazione attuale in Italia rispetto al mercato, agli investimenti da parte degli editori, allo spazio che viene riservato sui periodici a questo tipo di informazione?

Rizzo: E un momento molto interessante, ma è una fase di passaggio di cui potremo vedere i frutti, se ce ne saranno, tra qualche tempo. Il mercato si sta trasformando: gli editori più importanti fanno il loro ingresso nel settore attirati dal rendimento che un fumetto, visti anche gli anticipi spesso molto più bassi rispetto a quelli dei romanzi, può garantire. In Italia poi grazie soprattutto alla Sergio Bonelli Editore e alla Disney, abbiamo una qualità di tavole prodotte mediamente ottima. E, anche livelli di vendita niente male. Tutto sommato, il fumetto in Italia se la passa bene. D’altro canto viviamo in un’epoca in cui le edicole muoiono e le fumetterie vivacchiano, mentre le librerie hanno cominciato da poco ad accogliere con la dovuta attenzione i fumetti.

Stefanelli: Vorrei aggiungere, senza tema di smentita che l’Italia è, oggi il terzo grande produttore mondiale di giornalismo a fumetti dopo Stati Uniti e Francia. Pur con tanti autori di valore, tuttavia, rispetto a questi due paesi, non abbiamo all’interno dei grandi media spazi dedicati al graphic journalism in maniera regolare e soprattutto da prima pagina. E non abbiamo neppure grandi testate interamente dedicate. Un paio di piccole realtà ci sono – corne il bel sito GraphicNews – ma sono ancora di nicchia, autoprodotte. Ritengo invece che ci sia da augurarsi che autori come Gianluca e Marco, ormai i due più importanti e visibili graphic journalist italiani, riescano non solo a pubblicare di più su scala internazionale, ma anche sui più importanti media italiani. Non c’è solo Zerocalcare, oggi, ad avere le capacità per incarnare il ruolo del «graphic journalist da prima pagina» su un grande periodico.

Costantini: In questo senso trovo molto importante il cambiamento generazionale che sta avvenendo nelle testate italiane con direttori, redattori e grafici che sono più giovani e che, conoscendo il medium e sapendo come utilizzarlo, stanno facendo spazio al graphic journalism. Come dicevamo prima, è proprio un momento di passaggio.

Rizzo: Grazie Matteo per le tue parole. In effetti, mi sembra che ultimamente si sia diffusa l’idea che solo Zerocalcare sia in grado di veicolare certi argomenti – come una volta Milo Manara era considerato l’unico capace di fare le copertine di Panorarna – e questo è un peccato: non perché non stimi Michele Rech, anzi, gli sono amico e sono contento che abbia queste occasioni, che lo fanno ambasciatore del fumetto sui vari altri media in virtù del suo meritato successo. La sensazione, forse sbagliata, è però che venga utilizzato come nome accalappia lettori da piazzare in copertina e non scelto perché si è consapevoli del potere e della forza del linguaggio-fumetto come mezzo di comunicazione.

Stefanelli: Su Zerocalcare vale la pena sollevare un punto critico, che non riguarda la qualità informativa o comunicativa del suo lavoro, bensì il suo registro, che è sempre umoristico, anche negli interventi di taglio giornalistico. Ecco, l’idea che per meritare la copertina di un grande quotidiano o periodico il graphic journalism debba passare per forza per la comicità, la risata, la satira, mi sembra una visione del giornalismo piuttosto discutibile.

Rizzo: E anche una visione del fumetto piuttosto discutibile. Perché sembra dire che il fumetto funzioni solo se fa ridere, ribadendo certi luoghi comuni.

Stefanelli: Si potrebbe anche andare oltre. Non percepite, in alcuni casi, un rischio di appropriazione del graphic journalism da parte della stampa, come elemento puramente decorativo, e dunque secondario?

Costantini: Succede spesso. Come dico sempre: finché ci piazzano tra Cultura e Spettacoli è come dire che non sanno fino a che punto meritiamo credibilità. E finché siamo là in fondo, in un angolino, rimaniamo un elemento decorativo che ha, sì, la sua importanza, ma non per i contenuti, bensì per l’estetica o – nella loro idea – per la leggerezza con cui raccontiamo ciò che andiamo a raccontare. Non dovrebbe essere così.

Rizzo: Come dicevamo nel caso di Zerocalcare, sembra che il fumettista venga sbattuto in prima pagina perché ha un perché ha un nome di richiamo e non – o almeno non in prima istanza – perché veicola un contenuto. Penso che se il Corriere può fare spazio tra le pagine di cronaca alle brevissime ricostruzioni a fumetti di Franco Portinari, può anche mettere in prima pagina una tavola di graphic journalism. Cito il Corriere non a caso, e non solo per Portinari, ma perché con l’inserto «La Lettura» ci sta provando, anche se in maniera non sempre riuscita. L’alibi della mancanza di spazio non regge, si può trovare una soluzione come riescono a fare il Guardian o Libération.

Stefanelli: Digitale e social media ci hanno traghettato in una nuova era del giornalismo, quella del tempo reale e di codici e linguaggi della brevità. In questo panorama, che spazio c’è per il graphic journalism?

Costantini: La rete è il mio principale strumento di comunicazione e e di lavoro. Più delle testate cartacee. Le riconosco parecchia importanza perché penso sia particolarmente adatta a veicolare questo tipo di lavori e un tipo di disegno come il mio. Inoltre faccio fatica a contenere le mie storie all’interno dei confini nazionali, per cui la rete mi viene in grande soccorso.

Rizzo: A differenza di Gianluca, posso parlarne più come fruitore, perché sono piuttosto indietro in questo campo. Nutro peraltro anche dei pregiudizi – ma sono sempre pronto a smontarli – su quanto l’approfondimento giornalistico possa godere della dovuta attenzione sui social mischiato a fake news, foto di gattini, selfie eccetera. Ci sono comunque alcune realtà – come Graphic News, ma penso anche al lavoro che fa lo stesso Gianluca – che provano a crearsi una solida nicchia in mezzo a questo pubblico enorme. Ma c’è anche una questione meramente economica. Se in Italia già i giornali fanno fatica a pagare i contenuti perché siamo abituati ad avere tutto gratis su internet – mentre il New York Tlmes in qualche modo rinasce grazie agli abbonamenti online – pubblicare sul web mi sembra ancora più rischioso in questo senso. Ma questo è uno dei grandi mali del mondo del giornalismo, in cui spesso di manda il ragazzetto pagato 4 euro I’ora nelle periferie napoletane o palermitane a riportare notizie su casi delicati come omicidi e arresti di massa.

Costantini: Mi riferivo alla pubblicazione su siti web che peraltro, a livello internazionale, pagano. Il mio stipendio me lo porto a casa soprattutto lavorando per il web. Ho recentemente seguito le Olimpiadi invernali per la Cnn: se un anno fa mi avessero detto che una testata così importante mi avrebbe ingaggiato non ci avrei mai creduto. Ma come dicevamo prima: sono cambiate le persone che ci lavorano ed evidentemente quelle che ci sono ora trovano che il racconto a disegni sia più bello e più utile di una foto, più affascinante agli occhi dei loro lettori. E queste sono porte che, credo, si apriranno sempre di più.

(dialogo moderato e curato da Ingrid Colanicchia)

Questa intervista è stata pubblicata su MicroMega Per una sinistra illuminista, almanacco di giornalismo, 3/2018.
Direttore Paolo Flores d’Arcais


MicroMega 3/2018: “È la stampa, bellezza!” – Almanacco di giornalismo – Presentazione e sommario

MicroMega dedica il terzo numero dell’anno al giornalismo per discutere del ruolo e dell’etica di quello che è a tutti gli effetti il quarto potere delle democrazie contemporanee: nell’epoca delle fake news e della post-verità, la rivista diretta da Paolo Flores d’Arcais si interroga sullo stato di salute dell’informazione e sulla sua capacità di svolgere ancora oggi il compito di critica radicale del potere.

PRESENTAZIONE

Il cuore del numero è costituito da tre ampie sezioni di dialoghi, in cui note firme del giornalismo italiano si confrontano su doveri, responsabilità e limiti del proprio mestiere. Il tema dell’indipendenza e della sovranità dei fatti rappresenta il filo conduttore del volume: Luciana Castellina e Ferruccio de Bortoli, seguiti da Maurizio Molinari e Marco Travaglio, mettono a fuoco il rapporto fra militanza e imparzialità domandandosi come sottrarsi al controllo di interessi economici o partitici ed evitare forme di propaganda, mentre Enrico Mentana e Marco Damilano discutono dell’uso politico del giornalismo e degli eventuali rischi di una sua spettacolarizzazione in un contesto di crisi dei partiti e vuoto di rappresentanza.

Oggetto di un’altra parte di dialoghi è il giornalismo nei suoi diversi generi: Marco Lillo e Carlo Bonini presentano le sfide del giornalismo giudiziario e denunciano le difficoltà in cui versa negli ultimi tempi; Amalia De Simone e Sandro Ruotolo discutono del giornalismo di inchiesta, segnalando come è cambiata la narrazione della criminalità organizzata sui media e nell’opinione pubblica; Alberto Melloni e Emiliano Fittipaldi ci spiegano cosa vuol dire raccontare la Chiesa ai tempi di papa Francesco e quali sono le implicazioni per chi si occupa di informazione ecclesiale; Telmo Pievani e Rossella Panarese affrontano il tema del giornalismo scientifico, sottolineando la tensione fra democrazia e scienza e di conseguenza la necessità di una corretta informazione scientifica; con Stefano Cingolani e Giorgio Meletti è il giornalismo economico a esser tema di dibattito, mentre nuove frontiere del settore vengono presentate da Marco RizzoGianluca Costantini e Matteo Stefanelli, i quali si occupano di graphic journalism, ambito ancora di nicchia, ma in forte espansione.

Un’attenzione particolare è riservata inoltre alle trasformazioni che hanno attraversato il giornalismo nel corso degli anni: mentre il dialogo fra Massimo Gramellini e Selvaggia Lucarelli si concentra sulla rubrica della posta del cuore, termometro dell’evoluzione dei costumi e delle relazioni amorose, Francesco PiccininiPaolo Madron e Jacopo Tondelli si interrogano sulla funzione che il giornalismo può ancora svolgere ai tempi del web 2.0 e sul cambiamento nelle abitudini di consumo da parte degli stessi lettori. Il nuovo numero ospita anche alcuni saggi: Marco d’Eramo ricostruisce ascesa e declino della carta stampata, Silvia Bencivelli analizza il modo in cui i media parlano di scienza, Adele Orioli prende in esame la presenza della religione in televisione, David Lifodi racconta come la libertà d’informazione in America latina sia messa a dura prova, Marinella Correggia si occupa della questione delle fake news di guerra e infine il fumettista Zerocalcare denuncia le responsabilità mediatiche nello sdoganamento di movimenti di estrema destra.

Arricchiscono inoltre l’Almanacco un saggio di Marcel Gauchet, in cui il filosofo francese ripercorre il rapporto fra politica e menzogna nella storia del pensiero occidentale per soffermarsi sullo statuto della post-verità, e un contributo di Louis-Marie Horeau, ex redattore capo del settimanale storico francese Le Canard enchainé, che offre al pubblico italiano uno spaccato del sistema d’informazione d’oltralpe.

In occasione del cinquantenario del Sessantotto, Paolo Sollier ripercorre infine per MicroMega le tappe fondamentali della sua storia dal mondo del calcio alla militanza politica.

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