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Gianluca Costantini
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Parlare con la voce dell’altro: la sceneggiatura delle biografie nei Graphic Novels

Di Elettra Stamboulis, pubblicato in “Grafisches Erzählen als Kunstforschung“, LIT Verlag, Berlin

Ricordo sempre con piacere come scopersi che esisteva l’altro nel racconto. Nel senso che fino ad allora, ed ero già all’università, per me era tutto «io». Mi interessava esclusivamente quello che mi parlava, che sembrava lì per dare un senso alla mia esistenza e alla mia voce, ed ero una lettrice compulsiva. Fu verso la fine di Figure III in cui il critico si sofferma sulla scelta, deliberata o meno, di Proust nella Recherche, o meglio nella sua prima stesura ovvero Jean Santeuil. Proust, dice Genette, era attirato dal racconto ad incastro, usava ipostasi per nascondersi, era affascinato da quell’uso piuttosto comune (mutuato anche dal Manzoni dei Promessi sposi con la storia del manoscritto) di avere una fonte attendibile, come Stendhal con il canonico di Padova che gli racconta di Del Dongo: «Quando amiamo, cioè quando l’esistenza di un’altra persona ci sembra misteriosa, come vorremmo trovare un narratore così ben informato. E certo esso esiste. Noi stessi, non raccontiamo forse senza passione alcuna, la vita di questa o quella donna a uno dei nostri amici, o a un estraneo che nulla sa dei suoi amori e ci ascolta con curiosità?» A prescindere da quanto scrive successivamente il critico, per me la rivelazione fu che siamo gli autori più attendibili delle storie degli altri. Me l’aveva detto Proust, che parla quasi sempre di se stesso. Era possibile quindi uscire dalla propria pelle e raccontare la storia altrui. Ma come?

1. PASSO 1: PICCOLA GERUSALEMME

Nel 2003, dopo una serie di storie brevi pubblicate su varie riviste e in particolare su InguineMAH!gazine, cominciai a lavorare ad una storia più ampia con il disegnatore Angelo Mennillo. Entrambi veniamo da storie meticce: lui nato in Germania da madre tedesca e padre italiano, io nata greca in Italia. Ci interessava lavorare sulla memoria identitaria, quella che ci rende unici grazie all’oblio. Il campo di battaglia della memoria, la sua pretesa di verità che si scontra con la sua automatica fallacia, erano già stati al centro della nostra ricerca comune. A questo si sommava la questione linguistica, dell’abitare una lingua, che entrambi condividiamo, anche se in misura differente. Partita da un intento autobiografico, o meglio di narrazione della storia famigliare come strumento di autoidentificazione per chi nasce in luoghi diversi non per scelta, ma per necessità esterne alle scelte della propria famiglia, mi sono subito scontrata con il problema dell’autorappresentazione e dell’io. Il racconto autobiografico è «strutturalmente inaffidabile»: avevo bisogno di un appiglio solido dato dalla Storia e mi venne in aiuto uno storico inglese che già avevo frequentato per una storia breve con la sua ampia indagine sulla mia città paterna, ovvero Salonicco: città di fantasmi. Gli elementi di cui lo storico inglese riannodava i fili mi servivano per dipanare pezzi di narrazione familiare, cucire una fiction in cui molte cose erano presenti nella mia memoria fallace, tecnicamente fraudolenta, ma allo stesso tempo unica depositaria della mia identità labile, e potevano liberamente confrontarsi con la narrazione di una storia testimoniata dalla ricerca delle fonti fatta da qualcuno che fa un altro mestiere. La richiesta di raccontare una storia che parlasse della mia famiglia poteva liberarsi del vincolo che sentivo come narcisistico, ma che allo stesso tempo rimaneva vero e dunque realistico, nel senso attribuito a questa parola da Walter Siti, per dirne uno:

Realismo è quella postura verbale o iconica (talvolta casuale, talvolta ottenuta a forza di tecnica) che coglie impreparata la realtà, o ci coglie impreparati di fronte alla realtà […]. Il realismo è una forma di innamoramento.


Siti, Walter, Il realismo è l’impossibile, Roma 2013, 8

Così il mio innamoramento disvelatore mi ha portato a scrivere la storia più autobiografica che finora ho realizzato, utilizzando un protagonista, Romanos, che ha nome e alcuni caratteri di un mio cugino veramente esistente, ma porta al contempo elementi mosaicati di tanti aspetti che a volte mi riconosco. Ovviamente ha la mia voce, ed è sostanzialmente quella che si ascolta in tutto il libro, che è composto in parte di puro testo (le lettere che il protagonista scrive alla nonna), e in parte di sequenze a fumetti che raccontano gli incontri con i fantasmi della città. Una passeggiata di un flâneur balcanico. Per esempio è assolutamente vero che sono cresciuta con una scimmia di nome Marco… L’aspetto iconico, che viene citato da Siti, ritorna ovviamente nella scelta di raccontare e mostrare questo tipo di storia utilizzando il disegno.

Mennillo ha lavorato senza mai essere stato a Salonicco, prima dell’uscita del libro nel 2015 in Grecia. Il racconto-baule di Piccola Gerusalemme, nella sua imperfezione originaria, nel suo essere stato scritto senza sapere dove la storia andasse a finire (sempre che ci fosse una storia), come una sorta di monologo interiore reso in linee iconiche, si è poi sposato con il pro- getto di rivista che curammo negli anni a seguire, G.I.U.D.A. Geographical Institute of Unconventional Drawing Art, un progetto editoriale che rievocava avanguardie grafiche degli anni ’20, e ostinatamente voleva misurarsi con le possibilità del medium fumetto. Completamente disegnato, tradiva la realtà determinandola, partendo dalla Geografia intesa come pretesa di senso. E così Piccola Gerusalemme uscì a puntate, una ogni anno, per una piccola nicchia di lettori.

Tuttavia ha trovato nuova vita diversi anni dopo: non posso certo dimenticare (e qui ho le prove documentarie) che l’editore greco mi mandò il contratto il 6 luglio del 2015, il giorno dopo il referendum che ha scosso non solo quel piccolo paese, ma accentrato l’attenzione del mondo intero. Mi sono chiesta spesso come mai: che cosa c’è in questa storia – ripeto: così imperfetta e astrusa – che le ha permesso di avere una vita inaspettata?

Sicuramente ci sono alcuni temi, inesplorati dal punto di vista narrativo fuori dalla Grecia, ma centrali nella battaglia della memoria: la Shoah degli ebrei di Salonicco, un evento a lungo rimosso anche nella memoria collettiva della Grecia post guerra mondiale, la guerra civile che consegnò il paese ad una lunga stagione di autoritarismo e poi di dittatura militare. Ma questo non basta: un tema non è sufficiente a rendere un libro un oggetto che parla a più esperienze individuali.

Devo dire che il metodo di lavoro, inaugurato con questo primo libro «lungo» a fumetti, lo ha reso allo stesso tempo fortemente imperfetto, ma forse per questo più vicino a molte sensibilità. Una scrittura work in progress che è andata avanti di pari passo con il disegno, con- segnando al lavoro di coppia autoriale la responsabilità di aprire fili narrativi e chiuderli, cambiare registri, fare continue digressioni. Questo metodo, piuttosto eretico nel mondo del fumetto, può essere spiazzante soprattutto per il disegnatore. Ma allo stesso tempo rende il lavoro molto più intenso e coeso, o perlomeno così a me pare. Per questo l’ho seguito anche in tutti i libri successivi, arrivando anche alla sperimentazione che compare in un numero della rivista de La nana ventriloqua, in cui addirittura la scrittura è stata successiva alla sequenza delle immagini, è nata da esse.

2. PASSO 2: L’AMMAESTRATORE DI ISTANBUL – DIARIO DOPPIO

Riappropriarsi della propria voce non è facile. C’è questa famosa storia nella letteratura sulle autobiografie di Gertrude Stein, che contravviene alla regola fondamentale del genere, scrivendo quella della compagna di una vita, Beatrice Toklas, in prima persona (e dettandola a lei che la scriveva a macchina…). Di fatto il trucco ingegnoso disvela l’oggetto vero della narrazione, che non è Alice, ma la relazione di Gertrude con l’ambiente intellettuale di Parigi. Anche L’ammaestratore di Istanbul, pur non arrivando a tale camuffamento, gioca su questi piani sfalsati: è difatti la biografia di Osman Hamdi Bey, l’intellettuale ottomano che in pochi anni rivoluzionò la vita culturale dell’impero, ma soprattutto dello stato turco che sarebbe nato da lì a poco, attraverso un diario di viaggio alla ricerca delle sue tracce. Ci siamo io e Gianluca Costantini che disegna, c’è la nostra vicenda personale (scopro di aspettare un terzo figlio), ci sono le nostre amicizie ad Istanbul. Ma c’è soprattutto la mia visione della Turchia odierna, delle sue contraddizioni e dei suoi nodi. C’è lo scontro di civiltà e la fascinazione dell’orientalismo anche tra gli orientali.

Le regole qui sono state ancora più severe: nessuna correzione ammessa sul testo. Una scrittura flusso, giorno per giorno, senza possibilità di ritorno per aderire al tempo vissuto in questa ricerca e in questa esperienza. Così io scrivevo e Gianluca disegnava, spesso in piedi davanti ai quadri o a quello che vedevamo in diretta. Il risultato è un oggetto che non ha soddisfatto i lettori di fumetto tradizionali (dove sono le vignette? e tutte queste parole?), mentre ha appassionato chi legge saggistica o letteratura. Ma, a prescindere da questo, vorrei soffermarmi su un aspetto, ovvero sull’in- tento di aderire pienamente al tempo di vita.

Questo collasso, sempre esistente, tra memoria e storia, ma soprattutto tra memoria e narrazione della stessa, è particolarmente evidente nel fumetto: questo medium, per esplicita ammissione di chi lo pratica, per i tempi di realizzazione impone una riflessione più lunga, un distacco che inevitabilmente amplia le possibilità di oblio e manomissione. L’ammaestratore è stato un tentativo di uscire da questa impasse: «ci si ricorda delle cose senza le cose», scrive da qualche parte Aristotele. Lo scandalo dell’errore, che turbava fortemente i greci, che appare nello statuto doppio dell’impronta, dell’eikon, ovvero dell’immagine. È di per sé, ma è anche rappresentante di qualcosa d’altro. Volevamo sperimentare insomma in questa aporia, provare ad essere nel tempo con la storia creata.

L’aspetto interessante del risultato, riflettendo a posteriori, è che le uniche pagine inventate, di finzioni, sono quelle relative ad un sogno: questo è chiaro a chi le legge e conosce il greco (sono in realtà le parole di una famosa canzone di Savvopoulos) e così in qualche modo ne ho enunciato la falsità. Allo stesso tempo risulta un’operazione di realtà in quanto la mia forma onirica non può essere certo resa dalla mano di un altro, e probabilmente per uscire da questo vicolo cieco inconsciamente ho scelto questa scorciatoia.

Sicuramente molti altri processi di questo genere compaiono in questo testo. Scarti, omissioni parlanti, trasformazioni. Una di quelle che preferisco è sicuramente un riflesso inconsapevole incastonato nel disegno del quale non ho diretta responsabilità, ma che è divenuto esplicito grazie allo sguardo di un terzo, ovvero un amico storico di mio padre: il ritratto di Osman Hamdi, anche se è veramente similissimo al suo volto, è al contempo anche il ritratto di mio padre da più giovane.

3. PASSO 3: GLI ALTRI. GRAMSCI, BERLINGUER, PERTINI.

Nel 2010 la casa editrice BeccoGiallo mi chiese di adattare un testo teatrale Cena con Gramsci in fumetto. In realtà gli editori rispondevano ad un mio desiderio che non si era ancora concretizzato, fare un libro a fumetti sul pensiero di Gramsci, sulla sua assenza in realtà nel dibattito italiano. Di fatto, ero rimasta intrappolata nello studio dei testi gramsciani. Non riuscivo a trovare una via narrativa, anche se ne avevo ben chiaro l’intento, volevo «fare storia» senza dimenticare anche di «fare la storia».

L’impianto teatrale dell’opera in parte mi veniva incontro, in parte mi metteva in difficoltà. C’era sicuramente l’aspetto attualizzante e la presenza di Gramsci era una presenza di pensiero, più che meramente biografica, e questo aiutava. D’altro canto la drammaturgia, fortemente impostata su un teatro antropologico, agito e anche surrealizzato, era per me un oggetto che dovevo riuscire a non tradire, ma allo stesso tempo a ricondurre in altra forma. La soluzione venne come sempre dal disegno.

Scegliemmo, infatti, con Gianluca di sperimentare una forma stilistica mista, che tenesse i due livelli temporali narrati, la vita del politico sardo e l’oggi visto con gli occhi di uno studente alle prese con la tesi di dottorato e gli inghippi del mondo accademico italiano, distanti dal punto di vista visivo. Il presente così appare stilizzato, naïf, con colori piatti e spalmati. È un presente infatti inventato, appositamente ipotizzato, che mima la realtà, facendola però in qualche modo galleggiare. Dall’altra parte c’è in- vece la Storia, quella che non può essere tradita, che richiede fedeltà e cura: in questo caso abbiamo optato per l’utilizzo rivisitato delle fotografie d’e- poca, che sono tutte in bianco e nero. Questo bianco e nero che rende irreale un passato che comunque ci sfugge è stato ricolorato, con colori intensi e pop. Sono colori che in parte riprendono anche per esempio quelli degli occhi di Gramsci, di un azzurro intenso, che invece appaiono sempre grigi, come grigia ci sembra quell’epoca evocata. La sceneggiatura così è venuta quasi in modo naturale, asciugando e aggiungendo rispetto all’originale teatrale, perché l’azione scenica spesso aveva altre funzioni che non possono essere emulate dal fumetto, e allo stesso tempo il fumetto ha potenzialità inesplorate dal palcoscenico. Nel fornire, in parallelo a quella di Gramsci, una vita stilizzata, non mia, di un altro che non conosco e che non ho inventato io, esistito, ma di cui non sfioreremo mai (per dirla con Valéry) «l’intera vitalità», il mio intento era quello di individuare un interrogativo – perché Gramsci è scomparso? – interrogando così al contempo alcuni nodi del pen- siero di Gramsci e la loro attualità. Quando ho riletto il libro finito e stampato mi sono riconciliata anche io con l’idea, un po’ blasfema, della cena rituale con Gramsci. Il fumetto le ha donato anche più ironia, ma allo stesso tempo l’ha resa veramente contemporanea. Stilizzata, nello scambio di bat- tute finali, ci pone di fronte proprio a quell’aporia che mi interessava sollevare. Si cena con Gramsci, ma in sua assenza. Ricœur, proprio riflettendo sulla possibilità della memoria del passato, sostiene che «gli uomini del passato, immaginati nel loro presente vissuto, hanno progettato un certo avvenire, ma la loro azione ha avuto conseguenze non volute, che hanno fatto fallire i loro progetti e deluso le loro aspettative più care»16. Su questo fallimento e su questa delusione si concentreranno i lavori successivi.

In assenza dell’invitato principale, il libro andò comunque bene, tanto da far pensare agli editori di ripetere l’esperienza, questa volta con un graphic novel su un personaggio inesplorato dal disegno, ovvero Enrico Berlinguer.
In questo caso la soggettività dell’esperienza personale si intersecava con la vicenda biografica del segretario di partito. Per me, e per molti altri, l’impegno politico era nato dopo quel funerale, con un effetto quasi di dipendenza genealogica, che però ci aveva visti come rami recisi alcuni anni dopo, con il processo della Bolognina e la chiusura alla protesta degli studenti universitari del movimento chiamato La pantera negli anni ’90. In- somma Berlinguer, per chi aveva 40 anni in quel momento – o meglio: per molti, certo non per tutti – era stato un padre putativo che però aveva visto gli altri familiari espungerci dal consesso familiare. O almeno questa era la mia versione dei fatti.

Così optai per un taglio direttamente autobiografico: volevo che il romanzo diventasse un oggetto generazionale specchiante, non tanto della generazione del protagonista in copertina, ma soprattutto di coloro che ne erano stati gli ultimi eredi dal punto di vista temporale. Quelli che al momento del voto non avevano potuto più votare «il primo simbolo in alto a sinistra», semplicemente perché non c’era più.
Così la mia voce narrante apre la narrazione, si comincia «dalla fine», dai funerali di Berlinguer, che furono non solo un momento emotivo alto per quel popolo della sinistra che si diede anche un po’ un addio, ma anche collettivamente per quello che ha prodotto, ad esempio un film girato dai più importanti registi del cinema italiano. Si tratta quindi di un evento dalla forte valenza simbolica, che ha riunito le memorie individuali in una grande celebrazione collettiva che, nel momento dell’addio, voleva però innanzitutto segnare una presenza per il futuro.

Da qui parte quindi un percorso narrativo che abbina la mia esperienza di crescita negli anni ’70 (come nel capitolo Giocare negli anni ’70), in cui in pagine a righe e con un disegno fortemente stilizzato – che riprende la semplicità delle linee di Mafalda – scrivo un ipotetico diario dei miei ricordi e l’esperienza biografica di Berlinguer, che parte ben più addietro, ma che sostanzialmente si concentra, a parte qualche episodio giovanile, nella sua esperienza di politico. D’altro canto non c’erano molte alternative: la biografia del segretario sardo non era avvincente come quella di Tex. Andava invece raccontato come fosse diversa quell’epoca in cui, appunto, le vicende private, o meglio privatistiche, non incidevano in modo profondo sul dibattito pubblico, anche se il contesto sociale era profondamente moralista. Quello che importava era cosa incarnavi, e soprattutto cosa dicevi e come agivi. Questa differenza, quella degli uomini in paltò come dice Belpoliti, ha segnato un cambiamento antropologico, che oggi fatichiamo a ricordare e rendere presente alla vista della memoria. Ecco il perché dell’utilizzo di questo colore marrone che attraversa tutto il libro, nei toni del beige, della terracotta, dell’ocra. Un colore terroso che ci riporta ad una società vicina nel tempo, ma lontana per sensibilità e postura, vicina in un certo senso alla terra, anche se non più agricola.

E in un certo senso la vicenda si chiude proprio con questa «riserva degli indiani», come li chiamò Luigi Ghirri di ritorno dal servizio fotografico al comizio a Reggio Emilia nel 1983, che evapora dalla scena sociale de- gli anni ’80 per lasciare posto ai precari degli anni ’90.
Se il realismo ha bisogno di mentire, come sostiene Walter Siti, a volte ciò accade in modo inavvertito. Così, ho scoperto solo dopo la prima presentazione pubblica del libro, che la prima frase del libro – ovvero: «la mia prima manifestazione da sola era quella dei funerali» – era falsa. Mia madre mi ha detto: «Bello il tuo libro, ma perché hai detto che non c’ero?». La mia percezione della presenza era diversa, pensavo di essere senza genitori. E invece. Ma che importanza ha? Sicuramente questo è stato il testo che più ha parlato ai miei coetanei, ma ha avuto anche un altro effetto. Si è arricchito durante le numerose presentazioni in giro per lo stivale di numerose altre storie. Ogni volta qualcuno interveniva dicendo: «Io c’ero», come se questa volontà di rimarcare la presenza fosse ancora un leitmotiv narrativo, e per questo politico, ancora attivo. Voglio ricordare qui una signora a Modena, che in occasione di un reading poetico con mostra di Gianluca si presentò con il libro per farselo firmare: «Io c’ero ai cancelli delle fabbriche Mirafiori del 1980». Lei c’era, e questa storia in fondo parla anche della sua presenza, anche se non nomina il suo nome, lei l’ha sentita sua e in fondo il processo di commemorazione è esattamente questo riportare alla memoria episodi che appaiono singoli, ma che intessono segmenti di vita individuale dotati di senso. Sottrarre all’oblio, che è agente attivo della me- moria individuale e collettiva, pezzi che invece galleggiano ancora, anche se sul filo d’acqua.

Dopo Berlinguer sembrava mancare una tessera a questo breve mosaico del Novecento, e così BeccoGiallo ci commissionò un libro su Pertini. In questo caso la problematica che si poneva era ben diversa. Avevamo a che fare con un personaggio che era già un fumetto, disegnato da uno dei più grandi disegnatori italiani, soprattutto il più grande per Gianluca, ovvero Andrea Pazienza. Non era più «il primo libro a fumetti su», inoltre c’era il «problema» della vita rocambolesca del presidente con il sigaro, che da sola poteva tenere, se seguita passo passo, una serie ad episodi. Pertini è stato un uomo politico che ha amato molto raccontarsi. Ha costruito un particolare novel sulla propria autobiografia, perlopiù orale, che usava come modello per il futuro. Fu lui per primo ad aprire le porte al Quirinale ai bambini, accogliendoli sempre con un aneddoto. Anche in questo era un uomo dell’Ottocento.

Non era semplice quindi confrontarsi con la mole narrativa calda di una vita che un biografo ha sintetizzato con l’espressione «sei condanne, due evasioni» (e parliamo solo della prima fase della sua lunga vicenda biografica). La vita di Pertini potrebbe essere il canovaccio per un’ottima serie TV. Egli inoltre ingloba proprio nella sua traiettoria le vite di Gramsci, che conobbe a Turi, e di Berlinguer, che accompagnò rompendo il protocollo come suo solito da Padova a Roma. Non era nemmeno semplice confrontarsi con l’opera di «Paz» (Andrea Pazienza), che aveva reso negli anni ‘80 la figura di «Pert» (Sandro Pertini) un soggetto indimenticabile. Così abbiamo deciso di affrontare questa commissione facendo un metafumetto, ovvero una storia che sì racconta in estrema sintesi e attraverso la voce di Pertini che si trova sulle nuvole con Paz la propria vita, ma allo stesso tempo diventa anche un fumetto in cui una serie di opere fumettistiche diventano archetipo visivo immediatamente riconoscibile, un ulteriore significato che appare solo dalla rappresentazione grafica e che non necessita di ulteriori didascalie. Così Pertini diventa Mafalda quando è contestatario, è disegnato come Maus quando è incarcerato, è Asterix quando combatte contro i tedeschi… con pochi tratti la metamorfosi del presidente sociali- sta permette al personaggio del novel di rimanere se stesso (la pipa, dettaglio che diventa quasi feticcio del protagonista), ma allo stesso tempo di partecipare alla kermesse semiologica che il fumetto ha lasciato dietro di sé nella sua breve vita.

«Ti voglio narrare… di come si diventa socialista e, soprattutto, come lo si resta», dice Pertini al giovane Pazienza che gli fa compagnia sulla stessa nuvola. La cornice esibisce l’arte del narrare, e il narratore sulla nuvola è pronto a farlo. Esplicito e dichiarato l’intento didascalico. Come ha scritto Rachelle Gloudemans nella sua tesi:

In Pertini fra le nuvole questa riflessione riguarda esplicitamente la tensione fra fiction e non-fiction e fra oggettività e soggettività, mentre Il combattente sembra esplorare sia i ge- neri che il medium più adatto per raccontare una «storia convincente». Simile a ciò che Wu Ming osserva per il New Italian Epic, anche in questi casi le riflessioni metalettararie vanno oltre la metafiction postmoderna: invece di «raccontare del proprio raccontare per non dover raccontare d’altro», i libri sperimentano con la fiction giusto per poter raccontare la Storia.


Gloudemans, Rachelle M., «È cambiato tutto eppure mi sembra tutto molto familiare»: l’antifascismo rinarrato attraverso il personaggio Pertini nel New Italian Epic, tesi di laurea discussa in MA Literary Studies – Italian all’Università di Amsterdam, 2017, 20.

La giovane studiosa olandese in questa sua tesi in cui compara il romanzo di De Cataldo, Il combattente. Come si diventa Pertini, con Pertini tra le nuvole, arriva alle medesime conclusioni a cui ero arrivata in occasione di un articolo richiestomi per la rivista Pagine Inattuali, ovvero che questo tipo di graphic novel rientrano a pieno titolo nella definizione di UNO data dai Wu Ming. La sintesi della ricercatrice olandese mi conforta:

Dal rapporto dialettico fra parola e immagine, particolare per il medium, emerge una ten- denza metaletteraria che non è più postmoderna, ma un mezzo per poter mediare il rac- conto della realtà. Pertini fra le nuvole si allontana quindi dal postmodernismo ironico, che implicava l’impossibilità di comprendere la Storia, e si colloca invece fra quei tentativi, par- ticolari del New Italian Epic, che cercano di riposizionare la letteratura al centro della società, e si contrappongono alle immagini false diffuse nei mass media fin dagli anni Novanta.

Gloudemans, Rachelle M.

L’eroe reso fiction che si racconta dalle nuvole può raccontare in presa diretta la propria vita e morte, e continuare a raccontare anche alla fine, quando Paz si è ormai addormentato, che la nostra vita non è solo nostra nel mo- mento in cui viene raccontata.

4. PASSO 4. LA MIA VOCE È LA SUA VOCE – DIARIO SEGRETO DI PASOLINI

Quando ci proposero di realizzare un lavoro a fumetti su Pasolini rimasi per un po’ interdetta. La prima cosa che pensai è che dovevo nuova- mente parlare con voce di maschio, che non sono. Avevo il desiderio di scrivere una biografia sì, ma di una donna. Forse perché mi sentivo in parte colpevole di avere scritto la mia opera più autobiografica con un protagonista maschile…

C’erano anche in questo caso tutta una serie di premesse che riguardavano il fumetto. Pasolini, che nella vita avrebbe voluto diventare pittore, e poi si trovò come tutti i poliedrici in parte per caso, in parte per decisione, ad essere poeta, scrittore e regista, aveva già da tempo attirato l’attenzione dei disegnatori. Già dopo la sua morte, in un periodo non sospetto, ovvero in cui questo tipo di storie a fumetti non erano così comuni come ora, Graziano Origa pubblica una storia breve dedicata all’intellettuale ucciso da poco. Nel 1993 esce un albo in Francia per Glenat che si concentra sull’aspetto mistery della morte avvenuta ad Ostia, mentre nel 2002 Davide Toffolo, musicista e disegnatore originario del Friuli, immagina un’intervista immaginaria con il poeta, il cui centro è soprattutto la relazione con la terra friulana, ma anche gli aspetti più poetici della ricerca di entrambi.29 Infine lo stesso nostro editore, proprio nei primi anni di vita, aveva pubblicato Il delitto Pasolini di Maconi. Come districarsi dal già narrato? E soprattutto come liberarsi dall’afflizione necrofila che in parte sta alla base di molte opere dedicate al vitale Pasolini.

In quel momento ero particolarmente interessata al tema dell’infanzia, o meglio alle osservazioni sul tema di Maria Montessori, sulla quale spero un giorno di poter fare un libro. Quindi venne quasi naturale concentrarmi sull’infanzia, su quell’età dell’oro, come lo stesso Pasolini la definisce, in cui tutto accade, che crea un pulviscolo che pervade poi ogni momento della nostra vita. Di fatto, la lettura che lo stesso Pasolini dà del proprio la- voro, soprattutto registico, era sostanzialmente questa: un’immensa ricerca su di sé, sulla propria autobiografia, sulla radice e sul lutto che sta alla base del suo ingresso nell’età adulta, il suo trentesimo anno, per dirla con Ingeborg Bachmann. La vita dei fratelli Pasolini è legata da due morti violente.

Mi sono assunta anche una grande responsabilità, una sorta di provocazione, che però credo di avere risolto con umiltà, ovvero quella di scrivere in prima persona il diario inesistente del più noto intellettuale italiano del ’900.

«L’autobiografia è un abbaglio del desiderio, il vicolo cieco di un percorso sbagliato», per questo, dice Cavarero, la Stein decise di scrivere l’autobiografia della compagna. È forse per via di questo accecamento narcisista che sta alla base dell’intento autobiografico, che lo stesso Pasolini, come lo accusò poi Bordini, non scrisse mai un’autobiografia, pur dichiarando in una delle ultime interviste, quella su Salò. Le 120 giornate di Sodoma resa al giornalista tedesco Gideon Bachmann, che tutto il suo lavoro non è altro che l’esposizione del suo corpo. Così, l’appropriazione delle tracce dell’ipotetico scrittore di questo diario sono state semplici da trovare, perché lui, sin da giovane, aveva cominciato a lasciare testimonianze, ricordi sepolti, segni della propria storia di vita. La selezione è quindi la sua: gli esperti pasoliniani – che sono molti e agguerriti in Italia, e che spesso hanno partecipato alle nostre presentazioni – hanno riconosciute molte di tali tracce, e sono spesso riusciti anche a trovare dove ero stata io a ricomporle, riconoscendone la verosimiglianza, anche se non c’era alcuna pretesa di veridicità.

Il ritmo del testo riprende dal punto di vista visivo quello di un best seller per ragazzi, Diario di una schiappa: questo non deve scandalizzare, perché la struttura funziona a prescindere dal contenuto, e quella struttura è funzionale ad un racconto che funzioni come Bildungsroman.

È sicuramente la biografia più biografica di quelle realizzate finora: non ci sono sostanzialmente scatti in avanti o indietro, non c’è alcun intento extradiegetico. L’autodiegesi è immersiva, ci porta nella testa del protagonista, e le parole sono perlopiù le sue o di persone che con lui sono state in relazione. Il disegno è stato realizzato impastando e sbagliando appositamente, per dare quell’impressione di abbozzo, di presa diretta sulla realtà. Eppure, se lo rileggo, mi sembra quello più vicino a me. Se potessi tornare indietro, l’unica cosa che cambierei è il font, lo vorrei anche questo tutto manuale.

5. EPILOGO

Mentre stavo terminando questi appunti per l’articolo, ho comprato la raccolta di poesie di Antonella Anedda, Historiae, appena edita da Einaudi. «La poesia è una presa di contatto, un appuntamento», ci ripeteva spesso il prof. Gnisci all’università. E aveva prosaicamente ragione. Anedda mi aveva dato appuntamento per darmi le parole, e quindi per partecipare e rilegare, per chiarirmi quel che ho fatto finora:

Dire voi o tu mi dà disagio come accusare.
La terza persona mi confonde ogni volta con il sesso.
Alla fine torno all’io che finge di esistere,
ma è una busta come quelle usate per la spesa
piena di verdura o pesce surgelato.
Io con l’io mi nascondo


Anedda, Antonella, Nuvole, io, Torino 2018, 20.

Quando mi chiedono come mai ho scelto di narrare a fumetti, forse la ragione più profonda sta proprio nel pronome che non puoi occultare, in quell’io in cui ci si può nascondere e ritrovare.

BIBLIOGRAFIA

Anedda, Antonella, Nuvole, io, Torino 2018.
Cavarero, Adriana, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano 1997. Costantini, Gianluca/Stamboulis, Elettra, L’ammaestratore di Istanbul, Bologna 2008 [n. ed. 2013].
Costantini, Gianluca/Stamboulis, Elettra, Arrivederci Berlinguer, Padova 2013.
Costantini, Gianluca/Stamboulis, Elettra, Pertini tra le nuvole, Padova 2014.
Dufaux, Jean/Rotundo, Massimo, Pasolini, Paris 1993.
Faggi, Vico (a cura di), Sandro Pertini: sei condanne, due evasioni, Milano 1978.
Gnisci, Armando, Appuntamenti, Napoli 1988.
Genette, Gérard, Figure III. Discorso del racconto, trad. di L. Zecchi, Torino 1976. Gloudemans, Rachelle M., «È cambiato tutto eppure mi sembra tutto molto familiare»: l’antifascismo rinarrato attraverso il personaggio Pertini nel New Italian Epic, tesi di laurea discussa in MA Literary Studies – Italian all’Università di Amsterdam, 2017. Maconi, Gianluca, Il delitto Pasolini, Padova 2008.
Mariani, Maria A., Sull’autobiografia contemporanea. Nathalie Sarraute, Elias Canetti, Alice
Munro, Primo Levi, Roma 2011.
Mazower, Mark, After the war was over: Reconstructing the family, Nation and State in Greece 1943 – 1960, Princeton 2000.
Mazower, Mark, Salonica, City of Ghosts: Christians, Muslims and Jews 1430-1950, London 2004. Origa, Graziano, «Le ceneri di Pasolini», in: Contro, vol. 6, 1976, 24-27.
Paulesu, Luca, Nino mi chiamo. Fantabiografia del piccolo Antonio Gramsci, Milano 2012. Ricœur, Paul, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, trad. di N. Salomon, Bologna 2004.
Siti, Walter, Il realismo è l’impossibile, Roma 2013.
Stamboulis, Elettra, «Il Graphic Journalism in Italia. Analisi del giornalismo disegnato in un Paese a sovranità disinformata», in: Pagine Inattuali, vol. 7, 2017, 83-109. Sparagna, Vincenzo/Montella, Saverio, Vita, imprese e avventure di nonno Gramsci, Torino 2015. Toffolo, Davide, Intervista a Pasolini, Pordenone 2002.
Valéry, Paul, Cattivi pensieri, a cura di F. C. Papparo, Milano 2006.
Williams, Jeff, «Comics: a Tool of Subversion», in: Journal of Criminal Justice and Popular Culture, vol. 6, 1994, 129-146.

Pertini fra le nuvole / Ammaestratore di Istanbul / Cena con Gramsci

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